Cadeva di sabato quel 6 febbraio 1993, il giorno in cui Arthur Ashe moriva a causa di una polmonite legata all’AIDS, sindrome verosimilmente contratta dalla trasfusione di sangue ricevuta durante l’intervento di bypass aortocoronarico del 1983. Erano passati otto anni dal suo terzo e ultimo successo Slam, dopo lo US Open 1968 e l’Australian Open 1970. La vittoria a Wimbledon fu un po’ il suo capolavoro sportivo, battendo in quattro set in finale un Jimmy Connors largamente favorito e di nove anni più giovane.
Ashe è nato il 10 luglio 1943 a Richmond, in Virginia, uno di quei posti in cui doveva andare nelle scuole per i neri, prendere i bus per i neri; un posto, ha scritto nel 2021 l’assessorato alla salute della città, dove “il razzismo sistemico ha avuto un costo enorme sulla salute dei cittadini Neri per generazioni”. L’ha avuto per esempio sulla salute di Emmett Till, quattordicenne afroamericano torturato e assassinato per aver rivolto la parola a una donna bianca. Era il 1955 e Arthur trasferiva sul campo da tennis l’atteggiamento della vita di tutti i giorni: le parole d’ordine erano prudenza, stare sulla difensiva, pensare prima di tutto a tenerlo in vita – il punto o il proprio corpo. “Nel Sud, se sei nero e fai le cose troppo in fretta, la tua vita potrebbe essere in pericolo” avrebbe detto anni dopo ripensando all’omicidio di Emmett.
Una svolta drastica nella carriera e nella vita di Arthur arrivò nel 1960, quando si trasferì a St. Louis per l’ultimo anno di superiori sotto la spinta di suo padre e del suo coach e mentore Robert Walter Johnson. Una “spinta” motivata anche, se non soprattutto, dal fargli ottenere una borsa di studio universitaria per il tennis. Per questo c’era bisogno, come ha scritto il suo biografo Raymond Arsenault, “di allenamento professionale e tornei ai più alti livelli” per periodi prolungati, condizioni irrealizzabili nella Richmond della segregazione razziale che gli precludeva l’uso dei campi coperti. Il suo tennis si fece offensivo, migliorò il servizio che seguiva a rete e il dritto, vinse tra gli altri i Campionati Juniores Indoor e fu il primo afroamericano a ottenere una borsa di studio per la UCLA.
Un altro anno importante fu il 1968, quello che ha segnato l’inizio dell’Era Open. Ashe non era come Muhammad Ali, privato dei titoli per la sua opposizione alla guerra del Vietnam e il rifiuto di andare a combattere, o Kareem Abdul-Jabbar che boicottò le Olimpiadi per “l’inutilità di vincere l’oro per il proprio Paese e poi tornarci per vivere sotto l’oppressione”. Tuttavia, come la tragedia dell’adolescente Emmett, un forte impatto su Ashe lo ebbero quell’anno gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy che lo spinsero definitivamente a far sentire la propria voce. “Altri atleti di colore usavano la loro influenza e il loro potere per prese di posizione politiche” ha spiegato nel documentario Citizen Ashe. “A un certo punto mi sono detto, Arthur, non puoi rimanere in disparte mentre succede tutto questo, devi fare qualcosa”. Un percorso di attivismo lento, complicato, quello di Ashe, ben diverso dalle prese di posizione tranchant a cui siamo avvezzi oggi. Ma anche allora, con Billie Jean King che avrebbe detto, “Cristo, sono più nera di Athur”. Troppo bianco per i neri e troppo nero…?
Dopo aver ricevuto l’Arthur Ashe Humanitarian Award 2020, Frances Tiafoe ha scritto: “Nulla di ciò che hai fatto era per te stesso. Hai semplicemente cercato di essere prima una persona e poi un atleta. Riguardava sempre l’aiutare gli altri, questo è di grande ispirazione”.
Nel suo sostegno ai diritti civili, Ashe ha spesso parlato in favore della lotta di Nelson Mandela contro l’apartheid. Anche se non furono in molti a comprendere come la sua presenza potesse essere di aiuto alla causa, ha anche giocato a Johannesburg esigendo “spalti non segregati per i suoi match, libertà di andare dove vuole e quando vuole, ammissione non vincolata a uno status di bianco onorario”. Era il 1973, ricevette anche una lettera di ringraziamento da parte di Winnie Mandela per essere lì (ricordandogli però che “la cosa migliore che puoi fare è chiedere ai sudafricani come puoi aiutarli nella lotta”) e per la prima volta il campione statunitense veniva ammesso al torneo – una delle condizione dettate dall’ITF per evitare al Sudafrica un secondo anno di sospensione dalla Coppa Davis, sanzione a cui Ashe aveva contribuito in modo determinante. Il suo impegno gli è costato anche due arresti a Washington, nel 1985 durante la manifestazione davanti all’ambasciata sudafricana e nel 1992 per le proteste contro l’inasprimento delle politiche di accoglienza dei rifugiati haitiani. E, forse, il ruolo da capitano di Coppa Davis. Perché non esiste “la via di mezzo”: se non parli, sei criticato per l’assenza di impegno; se parli, sei criticato perché devi pensare solo al tennis.
“Una delle cose più folli che ti riguardano” ha scritto ancora Tiafoe, “è che tutti sanno del lavoro che hai fatto per rendere il mondo un posto migliore. Ma hai vinto degli Slam, fratello!”.
Nel 1973, quando perse la finale in Sudafrica contro Connors, ne aveva già vinti due. Proprio contro Jimbo, dicevamo all’inizio, giocò la finale di Wimbledon nel 1975, alla quale il classe 1952 arrivava con un percorso immacolato, mentre Ashe aveva lasciato qualche set per strada – due in semifinale contro Tony Roche. Quel Connors così diverso dal sempre gentile ed educato Ashe, quel Connors che Arthur aveva criticato perché non aveva aderito alla neonata ATP. E che gli aveva fatto causa per tre milioni di dollari perché lo aveva definito “antipatriota” a causa del rifiuto della convocazione in Coppa Davis. 6-1 6-1 5-7 6-4 fu il punteggio in Church Road a favore del primo tennista di colore a vincere Wimbledon.
Ashe ha giocato diverse volte anche in Italia, a Roma, Bologna, Milano e Firenze. Nel capoluogo toscano arrivò nel 1979 accogliendo l’invito del direttore del torneo, Ubaldo Scanagatta. La scintilla fu la mostra organizzata all’hotel Excelsior delle foto della signora Ashe, che non aveva saputo resistere all’affascinante richiamo della città.
Nel 1988 la diagnosi dell’HIV che ne causò la scomparsa cinque anni più tardi. Fu però solo poco prima dell’annuncio della malattia, nel 1992, che fondò la Arthur Ashe Foundation for the Defeat of AIDS e iniziò a organizzare eventi per raccogliere fondi, richiedere al governo di stanziare risorse per la ricerca e per informare ed educare le persone sull’argomento. Come le sue precedenti battaglie, anche in quel caso l’attivismo era maturato lentamente. Ma è sempre sbocciato, come naturale conseguenza del voler aiutare il prossimo. E perché, se nella città in cui la statua di quel generale che difendeva (anche) il diritto a ridurre persone in schiavitù ti appassioni a uno “sport per bianchi” che ti porterà inevitabilmente a essere il primo ad affrontare certe situazioni, buona parte della tua storia è scritta in anticipo.