Con il suo 121° posto nel ranking di specialità, Oleg Prihodko è attualmente il secondo miglior doppista dell’Ucraina. Classe 1997, dopo diversi anni nel Tour ITF, dal 2021 è riuscito ad entrare nei tabelloni principali del circuito Challenger – almeno in doppio, mentre in singolare è ancora costretto alle qualificazioni. Nell’intervista pubblicata da BTU.org.ua, portale ucraino di notizie sul tennis, oltre a parlare della propria carriera, Prihodko spiega le sue posizioni su sport e guerra, tra il rapporto con la federtennis del proprio Paese, le ragioni per cui ha giocato il doppio con un collega russo e altro ancora. Il tutto tenendo conto dei limiti dei traduttori online.
Oleg stava giocando un torneo nella Repubblica Dominicana il 24 febbraio dell’anno scorso. “Quella mattina ho visto sui notiziari che la guerra era cominciata. La prima reazione è stata di sorpresa, non capivo cosa sarebbe accaduto in seguito. Poi sono arrivati la paura e la consapevolezza dell’orrore di ciò che stava accadendo” racconta.
Nella primavera del 2022, Prihodko ha disputato tre tornei in coppia con il collega russo Yan Bondarevskiy, peraltro suo compagno di doppio in diverse occasioni l’anno precedente. “Ho giocato con lui perché è un amico” spiega. “La cittadinanza non mi interessa. Penso che una persona debba essere giudicata per le sue azioni, non per la sua cittadinanza. Purtroppo la nostra federazione si rifà all’esperienza dei dissidenti ai tempi sovietici, quando le persone erano condannate per dissentire dalle opinioni pubbliche. Ho molti amici in Russia e Bielorussia e la mia ragazza è russa. Tutti loro mi aiutano in ogni modo e parlano apertamente contro la guerra. Per questo, non credo di aver compiuto qualche azione terribile”.
Oleg aggiunge che ci sono state raccomandazioni da parte della federtennis ucraina di non giocare con un russo, ma “dal momento che ho le mie opinioni, ho fatto ciò che ritenevo necessario, non ho seguito ciecamente la politica del partito. In generale, credo che la condanna degli atleti porti solo a infiammare il conflitto. In questo modo, gli atleti cominciano a intraprendere la guerra dentro e fuori dal campo, diventando strumenti di guerra e dimenticando i principi basilari dello sport”.
Sull’assenza di simboli ucraini sul suo profilo Instagram, dice di non aver pensato che fosse necessario: “Mi sembra che tutti sappiano già che vengo dall’Ucraina. Non ho altri profili social, penso che una persona dovrebbe fare più nella vita reale che sui social”.
La federtennis lo aveva chiamato per giocare il tie di World Group I di Coppa Davis contro l’Ungheria lo scorso settembre, ma lui ha rifiutato: “Mi avevano anche offerto dei soldi, ma i loro commenti nei miei confronti sono stati inaccettabili”.
Il nativo di Pavlograd, città dove tre settimane fa una donna è stata uccisa e sette persone sono rimaste ferite in un attacco delle forze russe, non sorprende con la sua posizione sulla possibile esclusione dai Giochi Olimpici di Parigi. “Come atleta, non la capisco. È un sogno che inseguono da tutta una vita. Lo sport dovrebbe unire le persone. Nei tempi antichi, durante le Olimpiadi tutte le guerre si fermavano, ma ora sono parte della guerra”.
Sulla tregua olimpica nell’antichità che fermava tutte le guerre, è piuttosto inutile in questa sede andare a indagarne i limiti effettivi, mentre (non) è superfluo ricordare come i Giochi siano stati strumentalizzati dai peggiori regimi. Di sicuro, ci sono le parole del CIO che, a un anno dall’inizio della guerra, scrive di “una palese violazione della tregua olimpica”, ribadendo “la sua incrollabile solidarietà agli atleti ucraini che giorno dopo giorno hanno affrontato difficoltà indicibili”.
In Russia, i media che hanno ripreso la notizia hanno posto l’enfasi sulla contrarietà di un ucraino al ban degli atleti russi. Riportandone le parole, ça va sans dire, la guerra è diventata un’operazione speciale. E anche qualche parlamentare russo ne ha approfittato per cavalcare l’intervento di Prihodko.
Tornando al pensiero di Oleg secondo cui nessuno dovrebbe essere soggetto a discriminazioni per la sua origine etnica o nazionale (e non solo per quello) – che è poi un principio fondamentale quando si parla di diritti umani – ci piacerebbe che venisse applicato davvero nel mondo reale. E, in questo caso, il riferimento non riguarda gli atleti con passaporto russo.