Di Gaby Wood, pubblicato su Vogue il 22 febbraio 2023
In una fresca giornata di sole nel sud est della Spagna, un tennista di 19 anni si sta allenando. Lo scorso settembre è diventato il numero uno del mondo, una posizione che ha conservato per più di quattro mesi, diventando il più giovane tennista numero uno da quando sono iniziate le classifiche. Carlos Alcaraz, “Carlitos” per gli amici “Charlie” quando parla con se stesso, ha vissuto negli ultimi 3 anni qui alla Tennis Accademy di Villena. La struttura è costruita in mezzo a terreni agricoli e si trova tra una prigione di massima sicurezza e un castello medievale. Il nuovo re del tennis si allena qui per due ore ogni mattina “Ma c’è molto di più in arrivo,” mi assicura, appena la sessione è finita: il suo programma consiste in ” tennis, tennis e ancora tennis. “
Scivola e plana sul campo: ” Venga, venga, venga! ” urla a se stesso stringendo il pugno e appena la palla entra in contatto con la racchetta le sue esalazioni, mezze grugnite, mezze “cantate”, riecheggiano nell’aria arida col suo consueto “Ehhhhh!.”
Sta scambiando con Darwin Blanch, un allampanato, giovane americano di 15 anni che ha quella tipica andatura, a suo modo elegante, di un teenager le cui articolazioni sono cresciute molto velocemente. Guardandoli insieme si capisce quanto Alcaraz, che aveva una struttura simile a quell’età, sia cresciuto per soddisfare i requisiti del tennis contemporaneo.
“Oggi la maggior parte dei giocatori sono delle bestie” mi dice il suo coach Juan Carlos Ferrero. (per contro Ferrero, che è stato numero uno al mondo nel 2003, era magro e veloce tanto da essere soprannominato “El Mosquito”, la zanzara).
Ferrero li sta indirizzando a colpire due colpi specifici alla volta, più uno a loro scelta. Ci spiega che molti giocatori “giocano per distruggere, non per costruire. Carlos è fisicamente esplosivo e molto veloce. Non riesco a farlo giocare piano, ma spero sia capace di costruire, lui è creativo per disposizione naturale e questo è un vantaggio”.
In maglia nera, pantaloncini blu e le Nike Vapor Pro 2 con rialzo arancione e il baffo rosa brillante, Alcaraz è sia casual che monumentale. Mentre si muove sulla linea di fondo, il sole delinea i suoi muscoli delle gambe come se fosse un cartone animato: il piede in basso, seguito da un visibile aumento della spinta verso l’alto. sta eseguendo una versione del colpo che l’ha reso famoso battendo Jannik Sinner nei quarti degli US Open. Colpisce la palla ruotando e colpendola oltre la sua schiena, come se lanciasse un mazzo di chiavi, o guardasse dietro le spalle per vedere se ha dimenticato qualcosa. Un ghigno da ragazzo. Gioca a tennis come se fosse…beh, un gioco.
Adesso che Roger Federer si è ritirato, i fan in cerca di un nuovo idolo sono migrati in massa verso Alcaraz. “E’ come se Dio lo avesse mandato per essere il futuro del tennis“ dice Arnold Rampersad che ha co-scritto il libro di memorie di Arthur Ashe del 1994, Days of Grace. “E’ come un Arcangelo con una stupenda palla corta e un incredibile senso del campo”. Geoff Dyer, autore di The last days of Roger Federer, lo ha visto giocare a Indian Wells l’anno scorso, lo ha trovato non solo implacabile ma “il giocatore più giovane e completo che avessi visto da anni. In questa primissima parte della sua carriera, si sente immortale”.
Cos’ha che gli altri non hanno? Una combinazione di audacia, varietà di colpi, flessibilità tattica, stile, forza, originalità, arguzia. Un corpo che va in spaccata e subito dopo balza su, come se il campo fosse un trampolino. una seconda palla impressionante. Palle corte d’autore giocate in momenti di estremo nervosismo che farebbero saltare le coronarie a tutti gli allenatori. “Trascende ovunque giochi,” mi dice Brad Gilbert ( ex numero 4 al mondo nel 1990 ) coach e commentatore . “Ovunque la gente accorre a fare il tifo per lui perchè è davvero esaltante da vedere”.
Durante lo US Open dello scorso anno, che ha vinto, Alcaraz è stato in campo per 23 ore e 39 minuti, tra cui tre partite quasi infinite, terminate al quinto set, alcune delle quali finite a tarda notte. Prima della semifinale, è andato a letto alle 6 del mattino.
“Ecco una parola giusta per lui ,” dice Gilbert: “coraggio”. Si riferisce ad Alcaraz come in “Fuga da Alcaraz”, è così indomito. “Se mi dicessero tra cinque anni che ha vinto sei o sette Slam, non sarei per niente stupito” riflette Gilbert. “Forse saranno 10, forse di meno. Ovviamente un altro fattore importante è legato alla fortuna di non avere infortuni, gioca sempre molto fisicamente. Ma se mi dicessero tra cinque anni che ha un solo Slam in bacheca, sarei totalmente scioccato.”
Con l’addio di Federer e il declino di Rafael Nadal – il cui monopolio congiunto, insieme a quello di Novak Djokovic ha, secondo Gilbert, “spazzato via circa tre generazioni” – il tennis sta entrando in una nuova era. È più fisico, con partite più lunghe, giocate in tutto il mondo e, grazie alla programmazione televisiva, a tutte le ore del giorno e della notte; e ci sono più tornei, più stampa, più richieste sui social media; più modi per il mondo esterno di entrare nel mondo dei giocatori e distrarli. A marzo, poco prima di giocare a Indian Wells, Alcaraz affronterà un americano di alto livello, Taylor Fritz o Frances Tiafoe, in una “prima esperienza di tennis nel suo genere” all’MGM Grand Garden Arena di Las Vegas. Chiamato “The Slam”, questo combattimento di gladiatori è pubblicizzato con musica metal e si terrà in un luogo probabilmente più noto per l’incontro di boxe in cui Mike Tyson ha morso una parte dell’orecchio di Evander Holyfield.
Siamo molto lontani da tutto questo qui, all’accademia di Ferrero, dove le comodità sono minime e l’ambiente è sobrio. È la prima settimana di gennaio – un presepe accuratamente allestito troneggia su uno scaffale della mensa – e mentre molti giocatori sono già in Australia per l’Open, Alcaraz e Ferrero hanno scelto di trascorrere più tempo a prepararsi a casa. Verso la fine del 2022, Alcaraz ha avuto un infortunio a un muscolo addominale che lo ha portato a ritirarsi dalla Coppa Davis. Sia lui che Ferrero dicono che si è completamente ripreso.
Mi saluta dopo l’allenamento con un ampio sorriso alla Tom Cruise. Ci sediamo a un tavolo fuori. In primo piano, i suoi capelli scuri portano alcune ciocche punteggiate di bianco – come si addice a un prodigio, forse – e il suo modo di parlare è così franco che a volte penso di aver capito male. “Sono sempre stato un ragazzo di grande talento,” mi dice, senza vanteria. “Ma ho sempre lavorato sodo. Perché se hai talento e non ti impegni non arrivi da nessuna parte”.
Alcaraz partecipa a questo gioco, il gioco delle interviste, da quando era bambino. Un video girato quando aveva 12 anni lo mostra strizzare gli occhi verso la telecamera e dichiarare che Federer è il suo idolo. Perché non il suo connazionale Nadal?
“Rafa è qualcuno che ho sempre guardato“, dice ora. “Lo ammiro molto. Ma Federer, la classe che aveva, il modo in cui faceva vedere alla gente il tennis: era bellissimo. Guardare Federer è come guardare un’opera d’arte. È eleganza, faceva tutto magnificamente. Sono rimasto incantato da lui.”
Alcaraz è cresciuto a poco più di un’ora da qui, in un villaggio fuori Murcia chiamato El Palmar, un posto che visita ancora nei fine settimana. Tutti si conoscono, dice, e ha gli stessi amici con cui usciva da bambino. Circa 40 anni fa suo prozio costruì lì un club di tennis, su quello che era un poligono di tiro al piattello e il nonno di Alcaraz, Carlos, si unì all’impresa. Successivamente, il padre di Alcaraz, che ha giocato a tennis professionistico fino a quando non ha più potuto permettersi di continuare, ne è diventato il direttore. Quindi Carlitos è nato, dice, “con il tennis nel sangue”. Suo fratello maggiore, Álvaro (ora 23enne), ha giocato in tornei prima di lui, e i suoi fratelli minori (di 13 e 11 anni) sono appassionati di tennis quanto il resto della famiglia, compresa sua madre, che fino a poco tempo fa lavorava come commessa all’IKEA. Alcaraz ha avuto la sua prima racchetta all’età di quattro anni e, secondo suo padre, piangeva quando la sera doveva smettere di giocare per tornare a casa a cena. La sua vita sociale ruotava attorno al circolo del tennis.
A 12 anni era già un giocatore così promettente da essere sponsorizzato da Babolat e Lotto. Un amico di famiglia proprietario di Postres Reina, un’azienda di yogurt e dolci con sede a Murcia, gli aveva già dato i soldi di cui aveva bisogno per partecipare a un torneo junior in Croazia e ha continuato a coprire gran parte delle sue spese di viaggio. Ferrero lo ha visto giocare per la prima volta proprio in questo periodo. “Avevo già sentito parlare di lui”, dice il suo allenatore. “Soprattutto il fatto che stesse facendo un sacco di cose diverse: palle corte e pallonetti e discese a rete, cose che i ragazzini non fanno, stanno solo dietro, combattono e corrono. Era molto dinamico, lo si vedeva già”.
Alcaraz ha iniziato ad allenarsi con Ferrero quando aveva 15 anni. Ferrero aveva lavorato per otto mesi al fianco di Zverev; a detta del coach spagnolo la separazione è stata causata da posizioni divergenti sul concetto di “professionalità”. (“Siamo molto amici”, dice Ferrero di Zverev, mettendo a tacere eventuali insinuazioni polemiche. “Si è allenato spesso con Carlos.”). In Alcaraz ha visto una sfida: un ragazzo con molta strada ancora da fare.
La routine di Alcaraz consiste in diverse ore di tennis al giorno, oltre ad allenamento in palestra, fisioterapia e una pennichella dopo pranzo. Mangia quello che gli va, ma in maniera sana. La sera si impegna a imparare l’inglese. “Sono migliorato, ma la strada è ancora lunga!”. Ogni tanto si concede un film e, opportunamente, preferisce scegliere tra quelli che lui chiama “di suspence” o “motivazionali”. Film motivazionali? chiedo io un po’ confuso. “Sì,” risponde lui. “Sylvester Stallone. Hai presente, no? Rocky Balboa.”
Quando si vede coi suoi amici il fine settimana gli piace andare al parco e sedersi in compagnia oppure ritrovarsi a turno a casa di uno a fare giochi da tavolo. Gli piace il calcio ed è tifoso del Real Madrid (suo fratello maggiore tifa Barcellona). Secondo i rotocalchi usciva con Maria Gonzalez Gimenez, ma Alcaraz allude a una rottura dicendo che è single da 18 mesi. “Non restando mai nello stesso posto è complicato”, aggiunge. “E’ difficile trovare una persona con cui condividere le cose se ci si ritrova continuamente giro per il mondo.”
Uno dei suoi hobby sono gli scacchi. “Amo gli scacchi. Doversi concentrare, giocare contro un avversario, la strategia – dover prevedere le mosse. Penso che ciò sia molto simile al tennis giocato in campo,” dice Alcaraz. “Devi intuire dove il tuo avversario giocherà la palla, devi muoverti con anticipo e provare a ribattere con una mossa che metterà l’altro giocatore in difficoltà. Per questo ci gioco spesso.”
Qualche mese fa ha iniziato a fare più attenzione al suo abbigliamento e a fare in modo di avere un bell’aspetto quando esce per strada. Gli piace indossare jeans larghi o pantaloni larghi e una maglietta; è anche appena diventato il nuovo volto della campagna di intimo maschile Calvin Klein (slogan: “Calvins or nothing”). “Ci sono persone che indossano solamente brand in voga, ma io ho tirato dritto,” dice. “Mi vesto in modo molto semplice.”
Quindi, vi chiederete, che cosa ci fa coi montepremi delle sue vittorie? Ride. “Beh, se ne occupa mio padre. Sono ancora giovane e ho anch’io i miei capricci, ma sono molto naturale, normale, umile. Non bado molto ai brand e alle auto. Se mi piace qualcosa, provo a comprarlo, ma alla fine è mio padre che si occupa di tutto.”
E quali sono i suoi capricci?
“Sono un fanatico delle scarpe della Nike”, dice. E, sebbene sia sponsorizzato dalla Nike, spiega che ci sono modelli vintage che desidera “che sono piuttosto costosi. Sono esclusivi o difficili da trovare. E questi sono i generi di prodotto che compro, se mi piacciono. Tipo alcune Jordans, alcune Dunk Lows, o altre lanciate da Travis Scott. Voglio farmi una bella collezione – quello, in sostanza, è il mio obiettivo. Al momento ne ho circa venti paia.”
E’ quasi certo che Alcaraz accumulerà più di qualche paio di scarpe di qui ai prossimi anni – anche se non è chiaro quanto gli farà la differenza. Quando gli chiedo degli sponsor deve controllare sul telefono, ma poi si ricorda improvvisamente che la BMW gli ha dato un’auto.
Ferrero, che iniziò ad allenarsi anche lui qui all’età di 15 anni e che ha vissuto nella casa dove ora alloggia Alcaraz, è ben compiaciuto dei progressi fatti dal suo protetto, ma si trattiene fortemente dal cantar vittoria.
“Chi di noi è fra gli addetti ai lavori sa che è meglio essere cauti,” dice. “Penso che Carlos abbia delle qualità tali da poter entrare a fare parte della cerchia dei migliori giocatori nella storia del tennis. Questo mi è molto chiaro. Tuttavia, ovviamente, molte cose possono succedere. E’ giovane. Ci sono molte cose che non vede. Tutti sappiamo che ci sono dei rischi: andare a feste, distrarsi, non concentrarsi sul tennis. Quando hai l’opportunità di conoscere gente ricca e famosa, è facile perdere la bussola. Ora in molti gli diranno che tutto quello che fa va benissimo. Ma chi noi gli sta intorno deve cercare di vedere la realtà delle cose. Deve migliorare in tutto – continuità, mentalità nei momenti difficili, maturità in campo. Dobbiamo lavorare sui suoi punti deboli.”
La famiglia di Alcaraz, secondo Ferrero, “ha un ruolo molto importante” nel tenerlo con i piedi per terra. Il fatto che suo padre conosca il mondo del tennis è fondamentale. Il fratello, Álvaro, viaggia spesso con lui (durante gli US Open i fratelli Alcaraz hanno condiviso la camera d’albergo, allo stesso modo in cui, anni fa, condividevano un letto a castello).
Il team, in senso allargato, comprende Ferrero (“Juanki”, è il nomignolo affibbiatogli da Carlos, a sostituire il “Mosquito” con cui era chiamato da giocatore), un personal trainer, un fisioterapista, un medico, un paio di allenatori a Murcia e, ultimamente, una psicologa di nome Isabel Balaguer.
“Mi ha aiutato molto”, mi dice Alcaraz. “Ero un po’ confuso. Non riuscivo a controllare bene le mie emozioni, ero sempre arrabbiato. Quando avevo 15 o 16 anni lanciavo le racchette un po’ in giro, o ne rompevo, e questo metteva a rischio il mio gioco. Sapevo di dover migliorare sotto quell’aspetto. Grazie a Isabel sono migliorato molto. Sentirsi sereni durante un anno impegnativo è fondamentale. E dal mio punto di vista, è fondamentale scendere in campo sorridendo, sentendosi felici. Ti aiuta mentalmente. Per me è tutto”
Trascorro la notte in una delle capanne di legno dell’accademia, aspettandomi di rivedere l’allenamento di Alcaraz il giorno successivo; tuttavia, il mattino dopo il posto sembra deserto. Alcaraz e Ferrero sono alle prese con il preparatore atletico: “Oggi ci riposeremo”, annuncia Ferrero. Qualcosa non va, un accenno di infortunio, forse. Due giorni dopo, l’account Twitter di Alcaraz riporta la notizia: un movimento fortuito durante l’allenamento ha danneggiato un muscolo della coscia destra. Carlos si ritirerà dagli Australian Open.
“Ognuno di noi conosce il proprio corpo,” spiega Carlos “so dove sono i miei limiti, quando devo fermarmi, quando spingermi oltre. Ho imparato a farlo. È meglio fermarsi in tempo per recuperare il più rapidamente possibile. Anche capire quando fermarsi è una vittoria.”
Avevo chiesto ad Alcaraz quale fosse stato il suo momento più difficile fino a quel momento. “Ho avuto un brutto periodo dopo aver vinto lo US Open,” ha risposto. “Sembra che me lo stia inventando, ma… beh, quel momento mi è piaciuto molto.” (La notte della vittoria ha festeggiato con la sua famiglia e il suo team al Mission Ceviche, un ristorante peruviano nell’Upper East Side, e la festa della vittoria è stata seguita da un servizio fotografico con il trofeo a Times Square nelle prime ore del mattino.)
“Ma la verità è che, quando sono dovuto tornare a giocare, c’è stato un momento in cui mi son detto: “Stress!” … Capisci cosa intendo?”
La testa stretta tra le mani a illustrare il concetto, Carlos prosegue: “Forse non avevo pienamente compreso quello che era successo. O forse, istintivamente, ho perso una piccola speranza. Penso che quello che è successo sia stato che, quando ho visto che avevo raggiunto ciò che sognavo da quando ero un ragazzino, inconsciamente le mie aspirazioni si sono un po’ offuscate. E questo è stato difficile. Perché nessuno si stava divertendo, in campo: non io, e neppure Juanki, vedendomi così spento e privo di scintilla. Ho pensato, dove vado adesso?
Per quanto sia difficile arrivare al numero uno, è molto più difficile rimanerci. Quello che Rafa, Roger e Djokovic hanno fatto è quasi impossibile,“ conferma Carlos, sul mantenere la voglia di vincere nel tempo. “Penso che quando hai vinto il tuo primo Grande Slam ti rendi conto di quanto sia complicato.”
Quindi… cosa farà Carlos Alcaraz da ora in poi? “Continuerò a voler realizzare il mio sogno,” conclude, “anche se l’ho già fatto.”
Traduzione di Michele Brusadelli, Silvia Gonzato, Luca Gori, Massimo Volpati