Chiariamolo subito, chi scrive sogna un tennis infarcito di tanti Lorenzo Musetti.
Ci siamo innamorati perdutamente di lui il 15 settembre 2020, campo centrale del Foro Italico, 6-0 nel primo set a Stan The Man Wawrinka, non più lo Stanimal che aveva asfaltato tutti a Parigi 2015, ma neanche il prepensionato sovrappeso odierno. E due giorni dopo, sempre a Roma, altra lezione a un Nishikori dimesso ma comunque competitivo.
Da quei meravigliosi Internazionali d’Italia ogni nostra valutazione di Musetti ha peccato di partigianeria o di eccessiva severità, figlie entrambe dell’infatuazione originaria ancora in corso: qui cercheremo di mantenere una faticosa dimensione di neutralità.
Partiamo da un altro match crocevia, 7 giugno 2021, ottavi di finale del Roland Garros. Musetti incappa in un giocatore minore, tale Novak Djokovic da Belgrado, uno con in saccoccia già Melbourne che di lì a una settimana conquisterà Parigi – battendo uno che in Francia ha vinto quattordici volte – e il mese successivo saccheggerà pure Londra: tre slam su quattro nell’anno, a un soffio da Laver, not too bad. Ebbene, nei primi due set Nole ci capisce poco, al solito combatte sgomma sbuffa, ma li perde entrambi, e al tie break, con un moccioso di diciannove anni appena fatti, un moccioso fresco di top100 eppure sfrontato, creativo, imprevedibile.
Sappiamo poi com’è andata, e conta poco. Ciò che conta è quanto successo dopo. Da quella partita schizofrenica Musetti poteva uscire tramortito, scomparendo dai radar del grande tennis, oppure poteva imparare. Ha imparato. Ha imparato a trasformare l’immenso talento in sostanza, a gestire tanto i momenti di grazia quanto le criticità. Si è calmato, si è irrobustito. E nel 2022 sono arrivati i risultati, quelli veri: quarti a Rotterdam, ottavi a Montecarlo Barcellona Madrid, fino all’entusiasmante cavalcata di Amburgo – con lo scalpo di Alcaraz già Alcaraz – e ai quarti di Bercy, passando dalla vittoria ottobrina di Napoli. Bilancio annuale, due titoli, ingresso in top30 e le tacche di tre top10 sul fucile.
Molto bene.
Però.
Però il 2023 è iniziato che peggio non si poteva.
Musetti ha cominciato a pensare troppo, a pensarsi troppo addosso, complici anche gli osanna di una stampa sportiva e non sempre misurata ai primi successi italici. Non era più il Lorenzo spensierato che porta al 5º Djokovic, era Supermuso trionfatore in Germania e poi in Davis, quello in grado di battere chiunque. L’incoscienza dei mesi precedenti si era trasformata in preoccupazione, nell’ansia di tener fede a una reputazione in costante crescita, nella paura di dover fare i conti con gli Alcaraz, i Rune, i Sinner anziché i Lajovic, i McDonald, gli Struff.
Sicché, ai primi match da vincere e persi, a Musetti ha preso a mancare il coraggio, o meglio la fiducia in se stesso, che del coraggio è la fonte. Lì sono riemersi quelli che molti detrattori di professione definiscono limiti tecnico-tattici, ma che in realtà sono soltanto tare emotive, frutto di un’autostima ondivaga.
Facciamo un paio di esempi: si rimprovera a Musetti di giocare qualche chilometro dietro la linea di fondo perché obbligato a procurarsi più tempo, e quindi più spazio, dall’ampia apertura del dritto: apparentemente, un limite tecnico. Sennonché, nei momenti migliori, abbiamo visto Lorenzo impattare con anticipi vertiginosi, non sarà mai Agassi ma sa accorciare eccome i movimenti: se sta così dietro è semplicemente perché non si fida ad azzardare colpi difficili, spiazzanti ancorché ampiamente alla sua portata. Non è un limite tecnico, è un deficit di coraggio.
Gli si rimprovera altresì di avere basse percentuali di conversione in punto della prima palla, evidentemente a causa dell’incapacità di raggiungere velocità elevate in battuta. Abbiamo visto Lorenzo scagliare servizi alla T ben oltre i 200 km/orari: semplicemente non si sente di tirarli su ogni quindici, sceglie il più sicuro kick evitando così di affidarsi a una seconda che reputa attaccabile. Anche qui un deficit di coraggio.
Nel tennis di oggi però chi non rischia soccombe – “murodigomma” Medvedev a parte. Così è successo a Musetti e i risultati, da gratificanti che erano l’anno prima, nel 2023 sono tornati a latitare.
Digerita l’effimera euforia dell’impalpabile United Cup, per sette tornei di fila perde con giocatori peggio classificati, in cinque occasioni al primo turno. Poi arrivano la primavera e la terra europea, la sua preferita; a Montecarlo e Barcellona Lorenzo ritrova il filo del gioco, ma soprattutto una sufficiente convinzione nei propri mezzi. Attenzione, non siamo ancora al Turbomusetti di Amburgo, la prestazione più incoraggiante la sciorina con un serbo tosto ma minore, Kecmanovic – quella col serbo “vero” non vale giacché Djokovic nel Principato si fa sostituire dal fratello Marko; e poco vale pure battere in Spagna un Norrie spento, mai davvero a proprio agio sul rosso. Soddisfazioni parziali quindi, Lorenzo però esce vittorioso dagli scontri con chi sta dietro di lui nel ranking, in ciò invertendo la tendenza dei primi tre mesi dell’anno.
Il guaio è che a Musetti, e a noi con lui, non può bastare di superare un Kubler qualsiasi, di galleggiare tra top20 e top30; Lorenzo, e noi con lui, pretende a ragione di scalare gradini in fretta, di approdare agli ultimi tre, quattro giorni degli slam. Purtroppo per farlo occorre mettere sotto i più forti.
In Costa Azzurra Sinner gli è stato superiore dall’inizio alla fine, sarà per la prossima. Ma con Tsitsipas a Barcellona poteva vincerla e non l’ha vinta. Partita emblematica con uno scambio emblematico: sul 3-3 secondo set, 15-30 servizio Tsitsipas, il greco sbaglia la prima, sulla seconda Musetti avanza e cannoneggia d’anticipo un rovescio lungolinea da Hall of Fame. Ringalluzzito, pochi minuti più tardi intasca il break, qualche game dopo il set.
Quel colpo però non l’ha più giocato, nel senso che non ha proprio più provato a tirare la risposta, si è messo ad aspettare l’errore di Stefanos giocando da Carrara. E Tsitsipas l’ha vinta al terzo, rischiando accelerazioni e serve&volley di fronte a un Musetti sempre più timoroso.
Questo “svuotamento” progressivo d’iniziativa quando è sotto, alternato a improvvise iniezioni di fiducia quando è sopra, è certificato ahimé anche dalle statistiche ATP: perso il primo set, Lorenzo perde quasi sempre (2 su 12 nel 2023); vinto il primo, vince sempre (9 su 9). Quasi banale concludere che si esalta e demoralizza a seconda di come va il match.
In questo Musetti ricorda in modo sinistro il suo “padre putativo” Fognini (non solo in questo, anche in qualche atteggiamento da aspirante bulletto, la camminata tra l’indolente e lo spavaldo, l’elencazione poco lusinghiera di santi e madonne sugli errori, l’esultanza finale un po’ troppo “compressa”, come di liberazione da un peso). Quante volte abbiamo visto Fabio accartocciarsi su se stesso perché l’avversario prendeva il largo? O viceversa annichilire dirimpettai d’altissimo rango in ragione di una propositività, di un’aggressività “buona” in grado di innescare il suo braccio d’oro (pensiamo al Nadal preso a sassate a Montecarlo 2019, al Murray ridotto a comparsa in Davis nel 2014)?
Capiamoci, siamo convinti che Musetti firmerebbe subito per il 1000 vinto da Fognini, ancora l’unico che ha preso la via dell’Italia dai tempi di Panatta; o per issarsi al numero 9 del ranking come Fabio. Ma è troppo giovane per accontentarsi, lui in top20 ci è entrato a vent’anni, Fognini a ventisei; sempre a vent’anni Lorenzo ha messo in bacheca il primo 500, Fabio ancora a ventisei (casualmente Amburgo pure lui).
Insomma, c’è tutto il tempo, e l’ambizione, e il fisico, per non replicare la carriera/non carriera del ligure – per “non carriera” intendiamo ciò che poteva essere e non è stato. Musetti deve soltanto crederci e sgravarsi delle responsabilità, dimenticarsi di essere da un pezzo additato quale astro nascente del tennis, italiano e non solo, e divertirsi. Nondimeno deve affidarsi alla saggezza di Tartarini e Volandri, senza caricarsi sulle spalle l’oneroso quanto inutile compito di difenderli (vedi la scritta polemica “Supercoach?!” sul vetro della telecamera dopo aver vinto con Djokovic).
In pratica, già dall’imminente Caja Majica di Madrid, a Musetti farebbe tanto bene seguire il tipico consiglio che sale dalle tribune di un qualsiasi circolo di provincia al cospetto di un giocatore talentuoso… lascia andare il braccio! Quel braccio che comunque andrà è già patrimonio dell’umanità tennistica, a prescindere.