Il tema dell’uguaglianza di genere è ancora oggi uno dei più discussi a tutti i livelli della società. Sembra una frase fuori dal tempo, e invece quotidianamente ci si imbatte – nei settori più disparati, quello del lavoro in primis – a notizie relative a una disparità che non sempre accenna ad affievolirsi tra uomini e donne, provocando polemiche, malcontento e portando alla ribalta situazioni, a volte nascoste, che conducono a riflessioni approfondite su quanto il concetto di “modernità” in questo campo sia ancora lungi dal poter essere applicato in toto.
Cosa c’entra tutto questo con il tennis, vi starete chiedendo? In effetti, guardando ai montepremi dei tornei più importanti, a un primo sguardo pare che le differenze siano ben poche. Avevamo già affrontato un tema simile qualche tempo fa, sottolineando quanto i quattro tornei dello Slam generino il medesimo ricavo per ragazzi e ragazze, e anche sugli altri eventi di maggiore rilevanza, come i combined, all’apparenza non ci sarebbe spazio per alcun tipo di dubbio sull’effettivo stesso peso tra circuito ATP e WTA. E invece, l’inghippo c’è.
Come sottolineato da un’interessante inchiesta comparsa sul The Telegraph (disponibile qui), da diversi anni è proprio la stessa Women’s Tennis Association a nascondere le magagne di un sistema in realtà malato, mettendo di tasca propria, senza dichiararlo apertamente, ingenti somme di denaro per appianare discrepanze nei prize money che invece sarebbero certamente presenti senza tale corposo intervento.
Nello specifico, il succo dell’articolo evidenzia come ogni anno – e questo accade da ben prima del 2015, anno in cui Steve Simon ha ricevuto la nomina di CEO – la WTA paghi 25 milioni di sterline (pari a quasi 29 milioni di euro) per rendere identici o similari gli incassi di giocatori e giocatrici di quattro tornei che si posizionano un gradino sotto i Major, ossia Indian Wells, Miami, Madrid (quest’ultimo un torneo che ha destato anche altri tipi di polemiche) e Pechino. Lo stesso processo, con sussidi minori, avverrebbe in altre manifestazioni tra cui Doha, Dubai, Wuhan, Roma, Cincinnati e Toronto/Montreal.
Un’uscita forte e che fa riflettere, quella del quotidiano britannico, secondo cui – fatta eccezione proprio per gli Slam, talmente “ricchi” da non essere soggetti alle logiche del mercato – proprio le leggi della domanda e dell’offerta sono la causa principale di questo processo nascosto. La WTA, infatti, non gode dello stesso appeal del tennis maschile, né da parte di chi i tornei li organizza, che non sarebbe disposto a pagare nemmeno la metà dei montepremi totali da riservare alle ragazze, né da parte delle televisioni, che portano all’ATP (grazie ad ATP Media) circa 10 volte tanto rispetto a quanto incamera l’associazione professionistica femminile tramite Perform.
Di più, la WTA non ha neanche potuto beneficiare, negli ultimi 20 anni, di una stagione tennistica benevola come quella maschile, che ha invece visto alcuni grandi e continui protagonisti come i mitici Fab Four, Federer, Nadal, Djokovic e Murray, capaci di tenere desta l’attenzione degli appassionati per un paio di decenni. Tutti problemi che, uniti tra loro, hanno costretto la Women’s Tennis Association a cercare un numero di sponsor sempre maggiori tramite i quali ricavare quel denaro indispensabile per compiere il processo di finanziamento delle casse dei tornei al quale si è finora fatto riferimento.
Non si può tuttavia dire che la WTA, pizzicata sul tema dal quotidiano Telegraph Sport, non sia consapevole di tale criticità: “La WTA ha sempre spinto e continuerà a spingere verso l’uguaglianza che le nostre atlete meritano e verso il raggiungimento di livelli di retribuzione identici a tutti i livelli del Tour. […] La questione della parità dei montepremi non riguarda la strategia dei due Tour, poiché entrambi ne impiegano di simili, bensì si tratta del valore che il mercato paga per i diritti di uno sport femminile rispetto a uno maschile. Ciò determina la ragione della differenziazione dei livelli di retribuzione che vediamo. È giunto il momento che il mercato si faccia avanti e sostenga le discipline femminili ai livelli che meritano”.
Si è unito al coro, buttando altra benzina sul fuoco, anche il Financial Times – evidenziando, con uno studio condotto lo scorso anno, come l’ATP, rispetto alla WTA, procuri diversi bonus economici ai primi 30 giocatori del mondo, con cifre che si aggirano attorno ai 16 milioni di sterline (18,5 milioni di euro) – e il tennista australiano, nonché ex componente dell’ATP Player Council, John Millman, il quale, oltre a rimarcare come nel 2021 i ricavi dell’ATP erano stati doppi (176,8 milioni di dollari, circa 164 milioni di euro) rispetto a quelli della WTA (87,7 milioni di dollari, circa 81 milioni di euro), parlava così: “La parità di montepremi tra uomini e donne nel tennis può essere accantonata. È qualcosa che non accadrà. I principi e l’uguaglianza nel tennis sono stati cancellati a causa di decisioni sbagliate della WTA”.
Accuse nei confronti delle quali l’associazione dedicata al tennis femminile si è difesa, giustificandosi ancora una volta facendo riferimento a quelle dinamiche di mercato delle quali abbiamo ampiamente detto ma, se diversi indizi fanno una prova e se la criticità effettivamente esiste, siamo così sicuri che nascondere la magagna sia la soluzione giusta per superarla?