La disparità di montepremi tra tornei maschili e tornei femminili, soprattutto negli eventi combined come Madrid e Roma nei quali uomini e donne si esibiscono fianco a fianco, è sicuramente uno dei temi più accesi della discussione tennistica di quest’ultimo periodo. Negli ultimi sei mesi le tenniste non si sono certo tirate indietro per far notare la disparità di trattamento economico riservato a loro e ai loro colleghi maschi, a partire da Iga Swiatek che durante le WTA Finals di Fort Worth ha lamentato la grande differenza di montepremi tra la kermesse di fine anno del circuito femminile e le Nitto ATP Finals di Torino. La n. 1 del mondo ha fatto notare come il COVID e la situazione cinese (tra i confini chiusi e la questione Peng Shuai) non potevano giustificare interamente i quasi 10 milioni di dollari di differenza nella borsa in palio (14,75 milioni per le Nitto ATP Finals di Torino, 5 milioni per le WTA Finals di Fort Worth).
È stato un vero e proprio gancio scagliato da Swiatek all’organizzazione che gestisce il circuito femminile, proprio mentre si stava svenando (la WTA ha pagato il montepremi delle Finals quasi interamente di tasca sua, ed ha organizzato l’evento il più possibile al risparmio) per cercare di offrire un finale di stagione il più dignitoso possibile dopo la cancellazione del 2020 e l’edizione per certi versi fortunata, ma comunque raffazzonata alla bell’e meglio di Guadalajara nel 2021.
Poi ovviamente sono continuate le polemiche, come al solito acuite dall’arrivo dei tornei sulla terra battuta di Madrid e Roma, dove non sono mai mancate le recriminazioni da parte delle ragazze. Quest’anno a Madrid, dove i montepremi sono ugualmente suddivisi (ma soltanto perché la WTA versa un corposo assegno sul conto degli organizzatori per ripianare la differenza), la prima schermaglia è stata il “cake-gate”, la ridicola lamentela a proposito della dimensione della torta dedicata a Sabalenka nel giorno del suo compleanno, decisamente più piccola di quella donata ad Alcaraz il giorno successivo quando ha compiuto 20 anni. In Spagna Alcaraz, in questo momento, avrebbe probabilmente una torta più grande di quella del Papa, se Sua Santità ricevesse torte in dono dai tornei di tennis (per il momento ha rimediato solo una racchetta da padel dal Presidente Binaghi, ma in futuro chissà…), per cui la querelle è sembrata alquanto pretestuosa, ma certamente è stata la manifestazione di un malumore evidente che è esploso in tutto il suo fulgore quando è stata negata alle coppie finaliste del doppio femminile la possibilità di parlare durante la premiazione.
Dopo giorni di imbarazzante silenzio, la direzione del Mutua Madrid Open (che è di proprietà dell’IMG, la stessa organizzazione che gestisce anche il Miami Open) ha emesso un timido comunicato di scuse che non ha fornito alcuna spiegazione sui motivi dell’accaduto, dando la sensazione di una pezza peggiore del buco.
Ora che si sono conclusi anche gli Internazionali BNL d’Italia, dove le donne si sono spartite un prize money inferiore di quasi il 60% a quello degli uomini (€3.572.618 contro €8.637.966), e che un articolo-rivelazione del Daily Telegraph ha confermato che la WTA spende quasi 30 milioni di euro l’anno per ripianare (almeno in parte) le differenze di montepremi nei tornei di più alto rango, forse potrebbe essere il caso di farsi qualche domanda e di provare a darsi qualche risposta.
Pur partendo dalla premessa irrinunciabile che uomini e donne debbano essere trattati allo stesso modo, sempre e comunque, e che questo debba essere un punto di partenza imprescindibile, bisogna chiedersi se un mandato a tappeto che imponga la parità di montepremi quando questa non venga raggiunta dalle dinamiche del libero mercato non sia anche questa una forma di discriminazione. Sì, perché essendo l’ATP e la WTA due entità private distinte, che nonostante disputino alcuni tornei in maniera “co-locata”, tuttavia gestiscono diverse fonti primarie di reddito (a partire dai diritti TV) in maniera del tutto indipendente. E se gli introiti generati dalla WTA non dovessero essere alla pari con quelli dell’ATP, chiedere la parità di montepremi equivarrebbe a imporre all’ATP un sussidio a beneficio della WTA, quasi un “assegno di mantenimento” che potrebbe avere un significato quasi offensivo.
In base a quanto affermato da John Millman, tennista australiano ed ex membro del Players Council ATP, i diritti televisivi del circuito maschile corrispondono a 10 volte quelli del circuito femminile. Il rapporto di forse era stato confermato qualche anno fa dall’ex direttore dell’Open del Canada di Montreal, Eugène Lapierre, che nel 2018 dichiarò di ricevere dall’ATP sei volte di più di quello che riceveva dalla WTA per i diritti televisivi.
Il problema di fondo di tutta la questione, infatti, e sicuramente il primo ostacolo da superare se si vogliono fare passi avanti, è quello di arrivare ad accettare il fatto che, in questo specifico contesto storico, il tennis femminile non ha lo stesso appeal di quello maschile. Le rivendicazioni delle giocatrici (e dei paladini della loro causa) sembrano dare per scontato che tennis maschile e femminile sono due spettacoli diversi ma di uguale valore, e di conseguenza meritano di essere compensati nello stesso modo indipendentemente da ogni altra considerazione.
Tuttavia il mercato sembra dire esattamente il contrario: soprattutto in un periodo come quello attuale, nel quale il tour WTA fatica a proporre personalità interessanti e rivalità avvincenti, è innegabile che il tennis maschile abbia un superiore appeal. Certamente durante l’epoca dei Fab 4 era molto complicato per le ragazze tenere il passo del circuito maschile, che sembrava esser stato disegnato da uno sceneggiatore di Hollywood per creare “lo scenario perfetto”: i migliori di tutti i tempi che si sfidavano torneo dopo torneo per riscrivere il libro dei record, le grandi rivalità, le personalità contrastanti,… tutto pareva disegnato ad arte.
Mentre tra gli Anni ’90 e il primo decennio di questo secolo la presenza di Seles-Graf-Sabatini-Sanchez prima, e quella di Williams (x2)-Hingis-Davenport-Clijsters-Henin poi avevano creato narrative e rivalità davvero intriganti, che nelle fasi decisive di parecchi tornei dello Slam hanno dato vita a sfide molto più interessanti delle finali maschili (certi Wilander-Lendl e Muster-Chang non sono state esattamente sfide da far venire l’acquolina in bocca), oggi la situazione è decisamente più arida. Purtroppo i personaggi sono arrivati ma non hanno saputo dare continuità alle loro performance: Bouchard ha danzato una sola stagione; Osaka ha regalato altissime fiammate, ma anche tanti periodi di assenza; Raducanu dopo l’exploit allo US Open è incappata in una serie infinita di problemi fisici. Queste tre atlete sono state tutte quante in testa alla classifica di “Most Marketable Athlete”, ovvero di atleta più “vendibile”. Se fossero riuscite a dare continuità alla loro carriera, il tennis femminile (che ha potuto contare anche su un talento cristallino come Ashleigh Barty, anche lei sparita dalla ribalta anzitempo per scelta propria) avrebbe potuto competere ad armi pari non solo con il tennis maschile, ma con qualunque altro sport, senza differenze di genere.
Ma purtroppo non si può fare i conti su “ciò che avrebbe potuto essere”, e soprattutto non si possono distribuire soldi che non ci sono.
A Pagina 2 un confronto numerico tra tennis maschile e femminile