Le differenze tra il suo tennis e quello delle nuove generazioni
“Oggi ci sono più giocatori, sia a livello maschile che femminile. Ora il livello generale è molto piu alto, e continua sempre a crescere. I primi 300 in classifica giocano tutti un buon tennis. Inoltre è diventato uno sport estremamente più sofisticato e sviluppato in termini di preparazione fisica e qualità dello staff che segue gli atleti. Di conseguenza è tutto più professionale. Ai miei tempi, invece, anche solo l’allenatore era un lusso per pochi e c’erano soltanto quindici o al massimo venti giocatori veramente di alto livello. Oggi un Top Player viaggia con dieci persone attorno a sé, in ogni torneo che va a disputare. Il risultato di uno scenario molto più professionistico, inevitabilmente, produce una grande quantità di tennisti di altissimo livello. La differenza più importante che però ho riscontrato personalmente quando sono diventato capitano di Coppa Davis per la prima volta qualche anno fa, negli spogliatoi, è che in passato noi giocatori tra di noi eravamo tutti amici. Quando le partite finivano, uscivamo a divertirci insieme. Oggi ognuno fa la sua vita senza pensare a chi lo circonda; è tutto più individualista. Quando giocavo io, invece, si percepiva una connessione più umana che ora non vedo più. Mentre parlando del tennis giocato, oggi vedo che ci sono delle perdite di tempo tra un punto e l’altro che prima non c’erano. Prima vincevi un punto e immediatamente servivi il successivo. Ora, al contrario, quando sto guardando una partita mi viene da ridere perché vedo due ragazzi che tra un punto e l’altro vanno a prendere l’asciugamano. C’è un sacco di tempo morto, che in passato non esisteva minimamente. Fanno un ace e chiedono l’asciugamano! Si dovrebbe esaurire molto più rapidamente l’attesa tra punto e punto. Non sono mai stato un grande fan del Regolamento, e rispetto al passato non mi piace appurare come in campo i giocatori non dicano più ciò che realmente pensano o che hanno nella testa in un preciso momento. Non fa per me un tennis dove il giudice di sedia ti dà un avvertimento per aver detto “merda”. Ovviamente anche il pubblico, secondo me, è di questo parere. Infatti si è divertito tanto a vedere le partite tra McEnroe e Nastase perché erano due geni in campo, ma anche e soprattutto perché così potevano vedere all’opera la loro strabiliante ed eccentrica personalità. Io quando guardo un match ho voglia di ascoltare i giocatori, di ammirare i loro sentimenti e il modo in cui vengono vissuti. La mia generazione in campo aveva un altro comportamento: dopodiché andavamo a bere qualcosa assieme, in alcune circostanze affittavamo uno studio musicale per andare a suonare insieme. Tito (Vázquez) era sempre con noi. Ma anche Jim Courier, Johnny Mac [McEnroe, ndr], Ronald Agenor, Carlitos Kirmayr, Cássio Motta… Uscivamo, bevevamo birra e giocavamo di nuovo il giorno dopo l’uno contro l’altro. Cercavmo di creare momenti tra di noi“.
Il rapporto con Guillermo Vilas
“Willy [Guillermo Vilas, ndr] ha sette anni più di me e quando ero più giovane è stato il mio idolo. Vilas era un tennista romantico. Indossava i jeans, aveva i capelli lunghi. Era più di un semplice giocatore. Lui, Bjorn [Borg, ndr], Victor Pecci, Vitas Gerulaitis erano gli eroi del tennis di quell’epoca. Essere un giocatore di tennis in quegli anni significava dover essere rivoluzionario. Quando poi con Guillermo ci siamo conosciuti meglio, siamo diventati amici intimi. Abbiamo condiviso momenti molto belli e divertenti, quando abbiamo girato il mondo insieme partecipando ai vari tornei del Tour delle leggende. Quando ci riunivamo però non parlavamo mai di tennis: facevamo concerti, andavamo a cantare. Willy adorava i Rolling Stones! Una volta, a Natale, io ero a Parigi e mi stavo preparando per andare a giocare in Australia e sapevo che lui fosse nel suo appartamento che aveva in città. Al tempo avevo poco più che vent’anni, ero ancora molto timido ma facendomi coraggio lo chiamai e gli dissi: ‘Non so cosa avevi intenzione di fare oggi, ma è Natale e se hai piacere puoi venire a casa mia.’ Lui disse subito di sì, avrebbe potuto portare del vino e invece mi portò una chitarra come regalo. Una spettacolare Fender Stratocaster del 1962! Ce l’ho ancora, è un gioiello e di solito quando suono utilizzo quella chitarra. Guillermo è sempre stata una persona dall’animo generoso“.
Nel marzo del 1982, poco prima della guerra delle Falkland, a Buenos Aires andò in scena una sfida tra Argentina e Francia di Davis con Noah, stella indiscussa del suo team, che guidò i compagni alla vittoria per 3-2
“Erano giorni molto caldi. Ricordo che nel mio match contro Willy [Vilas, ndr] mi vennero i crampi. Quel giorno ero totalmente sopraffatto dalla tensione. In quella settimana, adorai l’energia del pubblico di Buenos Aires e non ho mai più visto niente di simile. Lo sostennero in maniera incondizionata, mentre a me venne lanciata anche una moneta.’Guillermo, Guillermo!’, erano i cori che si sentivano scanditi a un ritmo impressionante, come avviene soltanto nel calcio. Ho vissuto l’emozione di far parte di quello spettacolo, non potrò mai dimenticare quella tre giorni. Willy era un’autentica bestia in campo, io da parte mia lottai come potevo e alla fine venne fuori una grandissima battaglia. Nella mia memoria sono rimasti soli bei ricordi di quell’atmosfera pazzesca, perché soprattutto durante la partita con Guillermo si percepiva tutto l’amore che l’Argentina avvertiva nei suoi confronti. Alla fine persi in cinque set, tuttavia riuscii a riscattarmi vincendo l’ultimo punto contro Ricardo Cano“.
Il legame con José Luis Clerc
“José per me è come se fosse un fratello. È di una simpatia, che chi non lo conosce non può nemmeno immaginare quando sia in grado di farti divertire. Tutti hanno sempre parlato della sua resistenza fisica, della sua eccezionale capacità di copertura del campo; ma nessuno ha mai parlato di quanto sia empatico. Quando le luci dei riflettori si spegnevano, e ti ritrovavi negli spogliatoi assieme a lui, allora sì che vedere il vero Clerc. Ed è proprio per avermi dato la possibilità di conoscere persone magnifiche come lui, che provo un fortissimo senso di gratitudine per il tennis per tutti le amicizie che mi ha permesso di stringere e per le diverse esperienze che mi ha fatto vivere. E ‘Sweet Potato’ – soprannome di Clerc – è uno dei ragazzi con cui ho potuto condividere certi momenti. Abbiamo giocato sempre delle grandi partite l’uno contro l’altro, lui era tremendo in campo, incredibilmente cinico. Ma dopo i nostri rispettivi ritiri, abbiamo giocato alcune partite di esibizione a Punta del Este e ci siamo divertiti un sacco. Sono andato a casa sua in Uruguay e ci siamo trovati benissimo. C’era anche Enzo Francescoli, giocavamo a calcio, bevevamo qualcosa insieme, eravamo e ci comportavamo come veri amici. Sono andato con la mia band a suonare dal vivo a casa sua a La Barra. Avevamo la racchetta come strumento per affrontarci in campo, ma una volta che finiva la partita ci godevamo la mistica di quel tempo. La ‘patata dolce’ mi chiama molto spesso dicendomi: ‘Ehi, nero’. Lo amo. Lo dico perché so che in Argentina dire “nero” a qualcuno è un modo di salutarsi caloroso e amichevole“.
Il sogno di una vita
Noah era numero 6 ATP quando vinse il Roland Garros, 40 anni fa. In finale sconfisse il campione in carica, lo svedese Mats Wilander – il quale invece un anno prima, nel 1982, aveva battuto in finale proprio il grande amico di Yannick Guillermo Vilas – per 6-2 7-5 7-6, mentre nei quarti aveva battuto un altro grande campione come Ivan Lendl. Non appena realizzò il match point, con indosso un braccialetto che raffigurava i colori della bandiera del Camerun, si gettò verso le braccia del padre che era stato uno dei primi ad invadere il campo.
“Da quando sono diventato professionista, giocare e vincere il Roland Garros è sempre stato il sogno della mia vita. Ma poterlo effettivamente raggiungere era al di là di qualsiasi immaginazione. Non ho mai pensato di poterci veramente riuscire. È stata la cosa più importante che ho fatto nella mia vita sportiva. Fu tutto perfetto in quelle due settimane. Tutta la mia famiglia era lì, i miei amici erano lì. La finale fu una giornata divina, bellissima. Provai una gioia mastodontica a Parigi nelle ore che precedettero la finale. Sentii che la gente mi avesse trasmesso l’energia giusta per riuscire a realizzare il mio sogno, così entrai in campo convinto di vincere. Una settimana dopo il trionfo, ancora non capivo cosa avessi vissuto. Una sensazione di benessere impagabile. Se avessi vinto lo US Open invece del Roland Garros non sarebbe stato lo stesso. Avevo bisogno di vincere quel torneo e le mie priorità non a caso sono cambiate da quel momento in poi. Mi sono dedicato alla ricerca di cose nuove, a mettere su famiglia. Ho iniziato a vivere la mia vita“.
Il trionfo a Parigi cambiò tutto nella vita di Yannick
“Ho iniziato a ricordare esattamente ciò che era successo e a prenderne veramente coscienza solamente tre giorni dopo la partita, quando il mio agente mi chiamò. Io ero completamente sulle nuvole, lui mi dice: ‘Devo vederti’. Viene a casa mia e mi chiede: ‘Hai idea di quanti soldi tu abbia guadagnato?’ «Non ne ho idea», risposi. Appena ho saputo di quanto si trattasse, gli ho gridato: ‘Wow!’ e abbiamo iniziato a ridere come due deficienti. Pensavo fosse pazzo e invece era la pura verità. Sono scattati svariati bonus nei contratti che avevo in essere con il marchio che mi sponsorizzava. È stato come se avessi vinto alla lotteria. Con umiltà, inoltre, mi sono reso conto di essere diventato più di un semplice tennista in Francia. E anche le persone intorno a me sono cambiate radicalmente dopo quel trionfo, in più sono apparse nuove persone che non avevo mai conosciuto prima ed è stato allora che ho preso l’inevitabile decisione di trasferirmi a New York, che ha rappresentato un grande passo nella mia vita. Ci ho vissuto per tre anni“.
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