Mikael Ymer, recentemente squalificato per 18 mesi da ITF per aver marcato visita a tre controlli antidoping nel giro di un anno, non rilascerà interviste sino a quando la complessa vicenda in cui si trova coinvolto non sarà del tutto chiarita. Il venticinquenne tennista da Skovde, dopo aver affidato ai social anche il primo commento a caldo già sezionato su queste pagine, ha scelto di approfondire – e chiarire – ulteriormente la questione via Twitter, prima di concentrarsi su una difesa che si preannuncia non priva di asperità. In attesa dei prossimi, possibili sviluppi giudiziari, proponiamo qui il contenuto della missiva, ricalcante nei toni e nel merito le linee di innocenza già espresse in quella precedente, ma ricca di particolari ulteriori e non necessariamente superflui.
“Sono stati giorni strani e particolarmente difficili per me. Sto cercando di processare quanto è successo e di capire cosa fare da qui in avanti. Nel frattempo, non rilascerò interviste. Voglio però mettere nero su bianco i fatti riguardanti l’incidente che ha portato alla mia squalifica. Come ho già sottolineato nella mia precedente dichiarazione, ero già stato scagionato da un Tribunale indipendente composto da tre arbitri nominati dall’ITF. Immaginavo che il famoso “terzo incidente” – il terzo controllo antidoping saltato nel giro di 12 mesi, al Challenger di Roanne 2021, NdR – non sarebbe stato considerato un illecito, poiché mi trovavo esattamente nel posto in cui pensavo di dover essere e all’ora stabilita. Il Tribunale indipendente ha accolto la mia tesi, ritenendomi infine non colpevole, ma l’ITF non era dello stesso avviso, e ha pensato di appellarsi al CAS. È stato molto deludente: l’ITF dovrebbe per prima cosa pensare a proteggere i propri giocatori; la sentenza del Tribunale avrebbe dovuto rendere tutti felici, Federazione Internazionale in primis“.
Ymer decide poi di inoltrarsi tra le pieghe del regolamento. “Lasciatemi spiegare come funziona il sistema antidoping per quello che riguarda gli obblighi di un giocatore come me. Ogni giorno dell’anno sono tenuto a comunicare alla WADA (l’Agenzia Mondiale Antidoping, NdR) dove mi trovo, e un’ora nell’arco delle ventiquattro in cui mi rendo reperibile per i controlli. Potrete immaginare che nel corso di una stagione, in un’attività fatta di continui viaggi come quella del tennista, ci siano moltissimi cambiamenti dell’ultimo minuto in termini di voli, prenotazioni e alberghi. Vengo testato costantemente, ma non puoi mai sapere quando decidono di presentarsi. Naturalmente, tutti i test a cui mi sono sottoposto in carriera sono risultati negativi. So che tutto questo è fatto per mantenere il nostro sport pulito, e sono grato di avere a fianco il mio agente, che si occupa delle prenotazioni e di comunicare alla WADA dove mi trovo ogni giorno dell’anno, così che io possa concentrarmi esclusivamente sul tennis“.
Quindi il fatto incriminato. “Dopo aver perso al Masters 1000 di Parigi-Bercy sono andato a Roanne per giocare un Challenger. Spesso, i tornei si appoggiano a un hotel principale e a uno secondario; di solito vengo alloggiato nel primo, e anche nel caso specifico il mio agente mi aveva confermato che la prenotazione era stata fissata nell’hotel principale. Tuttavia, quando ho provato a fare il check-in, ho scoperto di essere stato spostato nell’albergo d’appoggio, che si trovava a otto minuti di macchina. È una cosa piuttosto comune, quindi sono andato all’hotel di riserva senza domandarmi granché“.
“Quando sono ai tornei, so che l’hotel è un posto sicuro per me; se la WADA decide di testarmi, mi fanno una telefonata e salgono in camera. Garantisco la mia disponibilità sempre tra le sei e le sette del mattino, così sono sicuro al 100% di esserci. Quella mattina ho ricevuto una chiamata alle 6:55 da un numero spagnolo: non ho pensato per un solo secondo che potesse trattarsi di qualcosa d’importante. Ogni giorno ricevo tonnellate di chiamate spam e da call center ed ero nella mia stanza, dunque pronto ad ogni evenienza. In ogni caso, mi trovavo a tre chilometri di distanza da dove sarebbe dovuto avvenire il controllo e l’orario per eseguirlo, tra le 6 e le 7 del mattino, stava per scadere, quindi non sarei mai potuto arrivare in tempo“.
Infine, l’amara conclusione. “Nonostante avessero appreso che non fossi in quell’hotel, gli emissari della WADA, anziché chiamarmi subito, hanno deciso di far passare il tempo fino a portarlo quasi a scadenza, incuranti del fatto che fosse in pericolo la carriera di un atleta. Si sono giustificati appellandosi al protocollo, al fatto che nessun obbligo imponeva loro di chiamarmi prima che mancassero cinque minuti allo scoccare del tempo. Ma il mio avvocato è riuscito a provare che in altre occasione gli agenti si sono astenuti dall’applicare il protocollo in maniera così rigida, avvertendo altri sportivi professionisti che si trovavano nella mia stessa situazione per tempo. Quindi è chiaro: è la WADA che decide quando applicare rigidamente il protocollo, quando no, e soprattutto, nei confronti di chi“. Ymer si chiude ora nel silenzio, attendendo futuri sviluppi che, vista la controversa vicenda, non crediamo tarderanno ad arrivare.