Continua il nostro viaggio nei luoghi dell’US Open. In questa seconda e ultima parte visitiamo il West Side Tennis Club e l’USTA Billie Jean King National Tennis Center, dove si svolge il quarto Grande Slam della stagione.
Per il più importante torneo tennistico del Nuovo Mondo, il 1915 è già l’anno dello spartiacque. Certo, il Newport Casino, l’impianto in cui si svolge ininterrottamente dal 1881, è un palcoscenico elegante, e poi così straordinariamente curato nella sua venustas, come direbbe Vitruvio, da venire ammirato dai più importanti critici. Tuttavia, il fascino della Grande Mela inizia ad essere incontenibile, non solo per uno skyline sempre più da record – in quegli anni viene inaugurato il Woolworth Building – ma anche per l’incredibile “fan base”, costituita principalmente da club, che all’epoca caratterizzava New York.
Nel febbraio 1915 si procede quindi ai voti, dove per soli nove punti in più i membri della federazione decidono di traslocare nella Grande Mela. Il luogo scelto, solo per il torneo maschile, è il West Side Tennis Club a Forest Hills, inaugurato appena due anni prima.
Una nuova era è ormai alle porte.
Stelle del tennis, welcome to Queens!
Il trasferimento è rocambolesco. O meglio, il girovagare di quei primi tredici soci del West Side Tennis Club per trovare la localizzazione adatta. E sì perché nel 1892 si trovano a Central Park West, dieci anni più tardi vicino alla Columbia University e poi un nuovo spostamento tra la 238th Street e Broadway nel 1908. Viaggio concluso? Ovviamente no, dato che nel 1912 scovano l’attuale lotto a Forest Hills, nel Queens. E lì decidono di stabilirsi definitivamente.
Sia chiaro, nonostante i continui trasferimenti, il West Side Tennis Club rappresenta un palcoscenico già molto ambito. Nel settembre 1911 sulla sua erba si erano giocato le sfide tra USA e Gran Bretagna della International Lawn Tennis Challenge, poi denominata Coppa Davis in onore di Dwight F. Davis.
Non l’ultimo arrivato, insomma.
E infatti, come anticipato, il National Championships 1915 giunge proprio lì. Cominciando prima ad essere organizzato nei campi disposti davanti alla tronfia club house in stile Tudor (in linea con l’architettura del quartiere), e poi nel monumentale Forest Hills Stadium progettato dall’architetto Kenneth MacKenzie Murchison, famoso per aver “importato” negli States il Beaux-Arts e il neogotico, ma anche per degli eventi – i Beaux-Arts Balls – organizzati per aiutare colleghi in difficoltà.
Un Garden… fuori da Manhattan
L’invenzione del progettista sopracitato si concretizza quindi, nel 1923, con lo stadio centrale del West Side Tennis Club. In realtà Murchison è esperto nel disegnare edifici istituzionali e non infrastrutture sportive, tuttavia, similmente a quanto avvenuto a Newport con il trio McKim, Mead & White, riesce a condensare in un’unica architettura l’estetica classica (con tanto di modanature, archi e sculture) e la funzionalità che il club richiedeva in quell’epoca.
Niente più strutture temporanee, ma un solido edificio in calcestruzzo armato capace di contenere 14mila persone. Rifletteteci un secondo, immaginate la sorpresa di un cittadino degli anni Venti nel vedere una struttura di questo livello, capace di rivaleggiare, almeno per capienza, con il Garden di Manhattan.
E poi ricordiamo la localizzazione. Nel 1923 qui non siamo a Times Square, bensì in una zona periferica di New York, addirittura bucolica come scrive Jen Carlson sul Gothamist.
Il Forest Hills Stadium stabilisce di conseguenza una stretta connessione con il luogo, diventerà uno “stadio urbano”, rendendo il Queens sinonimo di tennis e integrandosi successivamente con una città che, espandendosi, lo ingloberà nella sua trama.
Flushing Meadows, specchio della società americana
Come sappiamo, il West Side Tennis Club non è l’ultimo step dell’US Open. Il passaggio definitivo vede infatti il Grande Slam traslocare a Flushing Meadows, sempre nel Queens ma con una storia completamente diversa rispetto a quella del club fondato nel 1892. Riguardo al passato del sito si potrebbe scrivere un libro, tuttavia, per ora, limitiamoci al fatto che veniva descritto da Francis Scott Fitzgerald come “una valle di ceneri”.
Già, perché prima della bonifica si trattava di una sorta di palude, poi rigenerata per ospitare la 1939 New York World’s Fair, quella del Parachute Jump per capirci.
E poi? Be’, e poi tanti avvenimenti: dal capitolo II della New York World’s Fair, nel 1964, ai molti anni di degrado che seguirono quell’evento, stabilendo un déjà-vu rispetto all’epoca narrata da Fitzgerald.
In tale contesto, la costruzione dell’USTA Billie Jean King National Tennis Center, patria dei cementari, per il torneo 1978, rappresentò l’occasione decisiva per la riqualificazione dell’area, andando persino a riutilizzare lo storico (ma rinnovato) Singer Bowl.
Il nome vi ricorda qualcosa? In effetti questo impianto, realizzato per l’esposizione del 1964, fu uno dei primi casi di “naming rights”, poiché venne finanziato dalla Singer Manufacturing Company. Esatto, quella che produce macchine per cucire.
Lo stadio venne in seguito rinominato “Louis Armstrong” per omaggiare il grande musicista jazz che abitava lì vicino, e poi completamente ricostruito nel 2018, quando ormai era stato detronizzato da quel Colosseo contemporaneo che porta il nome di Arthur Ashe.
Di certo sarebbe interessante analizzare i due impianti, ma ritengo opportuno concludere questo focus riportando all’attenzione ciò che avevo scritto nell’incipit, ovvero quel profondo senso di americanità che contraddistingue ogni struttura di Flushing Meadows.
Anche se a dire la verità, qui si va persino oltre. In fondo ogni luogo dell’US Open è strettamente connesso alla cultura statunitense. Le denominazioni degli stadi – “Louis Armostrong” e “Arthur Ashe” – del resto rimandano proprio a quello. A quel periodo in cui il Civil Rights Act non era ancora stato promulgato, e a quando Althea Gibson lottava per diventare la “Jackie Robinson” del tennis.
Riflettendo, mi viene in mente una frase di Martin Luther King: “I have a dream”.
Qui all’US Open una parte di quel sogno si è avverato.
E solo per questo, è un torneo che merita tutta la sua iconicità.
Luca Filidei