Con la schiacciante vittoria del Team World per 13-2 (e la conseguente pesante riduzione del programma della terza giornata) si è conclusa anche la sesta edizione della Laver Cup, la seconda vinta dalla squadra “rossa” del Resto del Mondo. È inevitabile constatare come la manifestazione quest’anno si sia svolta decisamente in tono minore: di certo era impossibile superare le vette epiche raggiunte nell’edizione di Londra del 2022 con l’ultimo match ufficiale di Roger Federer in doppio col suo eterno rivale Nadal, le lacrime generalizzate, tutti i Fab 4 riuniti nella stessa squadra, etc… ma l’assenza di quasi tutti i Top 10 dal team “blu” dell’Europa ha reso la competizione molto più insipida, oltre che oggettivamente squilibrata.
Le cifre ufficiali dell’evento parlano di 72.251 fans che hanno riempito la Rogers Arena di Vancouver nel corso delle cinque sessioni, ma non era difficile notare anche dalle immagini televisive parecchi posti vuoti nel corso delle giornate di gara, e controllando sui siti di rivendita attivi nella zona di Vancouver si potevano trovare, soprattutto per la giornata di venerdì, parecchi biglietti in vendita sul mercato secondario a poco più di 10 dollari canadesi (circa 8 euro), segno che la domanda per i tagliandi non fosse certo alle stelle nella città del British Columbia.
La sede lontana: un’arma a doppio taglio
Di sicuro uno dei fattori su cui gli organizzatori della Laver Cup (tra cui l’agenzia di management fondata da Federer, Team8, e Tennis Australia) puntavano per rendere la tappa canadese della manifestazione un successo è la relativa lontananza di Vancouver dai circuiti abituali del grande tennis. Infatti oltre a un torneo Challenger nel corso dell’estate (cui si accompagna anche un ITF femminile da 100.000 dollari), in questa zona del Canada è molto complicato riuscire ad assistere dal vivo a incontri di tennis professionistico di massimo livello, tanto meno tra stelle di prima grandezza come erano in ogni caso quelle impegnate in questa Laver Cup. Il torneo importante più vicino a Vancouver è il BNP Paribas Open di Indian Wells, che si trova comunque a più di tre ore di volo.
Questo elemento ha probabilmente aiutato il botteghino nelle prime fasi della prevendita, quando ancora le squadre non si erano delineate e si è potuto spuntare prezzi importanti sulla falsariga di quelli fatti pagare nelle precedenti edizioni. Nel British Columbia i prezzi di listino partivano da 35 dollari canadesi (circa 25 euro) per i posti più lontani della sessione diurna di venerdì fino agli 825 dollari (circa 575 euro) dei posti più pregiati per le altre sessioni. Ma come detto, all’avvicinarsi dell’inizio delle gare i prezzi sul mercato secondario sono scesi parecchio.
E se da una parte la posizione geografica di Vancouver ha creato un mercato “captive” per la Laver Cup, dall’altra è indubbio che ha costituito un ostacolo al reclutamento dei nomi più pregiati. Con molti dei primi della classe che hanno dovuto spostarsi dallo US Open a New York ai raggruppamenti di Coppa Davis in Europa, una tappa sulla Costa Ovest del Canada, a 12-13 ore di volo e 9 ore di fuso orario dalle sedi della Coppa Davis, per poi dover attraversare direttamente il Pacifico (e sciropparsi altre 10-11 ore di volo e 9 ore supplementari di fuso orario) verso lo swing asiatico è parsa a tanti davvero poco allettante.
È lecito aspettarsi che il prossimo anno alla Mercedes-Benz Arena di Berlino la faccenda sarà parecchio differente, con diversi assenti di questa edizione che torneranno a rendersi disponibili per una manifestazione che, seppur controversa, si sta ritagliando un posto nel cuore (e nei portafogli) dei giocatori.
Una presenza ingombrante
E lo spazio se lo è ritagliato anche nel calendario dell’ATP, uno spazio che avrebbe fatto davvero tanto comodo alla Coppa Davis. Al momento la ITF ha a disposizione quattro settimane l’anno per la competizione a squadre più vecchia dello sport, le stesse settimane che erano state assegnate quando la formula era quella tradizionale. Ma se prima, con tutte le partite che si disputavano durante i fine settimana, le settimane immediatamente dopo gli Slam potevano essere una collocazione accettabile (anche se fino a un certo punto), ora che a settembre si giocano gironi all’italiana con partite distribuite da martedì a domenica sarebbe stato meglio avere una settimana di pausa tra la fine dello US Open e la Coppa Davis. Soltanto che in quella settimana si è piazzata la Laver Cup, che con grande destrezza ha occupato un posto pregiato nel calendario e non lo mollerà tanto facilmente. Anche perché dopo aver ottenuto il patrocinio dell’ATP (che ha addirittura inserito i risultati della Laver Cup nelle statistiche ufficiali), sarà abbastanza difficile che l’evento della Team8 venga spodestato per fare spazio alla gallina dalle uova d’oro dell’ITF.
Si tratta di un complicatissimo gioco a incastri, di un tetris con un’elevatissima posta in palio soprattutto ora che la Coppa Davis ha abbandonato il la guida di Kosmos e deve trovare una sua identità sotto l’egida del riconfermato presidente Haggerty, colui che da tanti è additato come il “traditore” che aveva venduto la Tradizione dell’Insalatiera ai dollari (peraltro mai totalmente materializzatisi) del fondo d’investimento guidato da Piqué. Certamente Haggerty non è immune da colpe, specialmente per come la riforma della Davis venne approvata a Orlando nel 2018, ma almeno ha avuto il merito di gettare un sasso in uno stagno putrefatto che stava ingoiando la gloria della Davis, ingessata in una formula ormai anacronistica e con un appeal commerciale ormai decaduto e lanciata sempre più verso l’oblio.
La quadratura del cerchio
Il famoso T-7, ovvero il consiglio delle sette entità che governano il tennis (ATP, WTA, ITF e i quattro Slam) fortemente voluto dal Presidente ATP Andrea Gaudenzi e che dovrebbe mettere un po’ d’ordine e armonia in un mondo nel quale ognuno pensa al proprio giardino senza preoccuparsi del bene comune, è probabilmente la chiave per trovare la quadratura di questo cerchio, l’unica speranza per poter eliminare alcuni dei vincoli che bloccano la Coppa Davis e la sua capacità di trovare una nuova identità capace di conciliare il fascino antico e le esigenze del business “tennis”.
La soluzione, che dovrà necessariamente passare per la riformulazione della strategia commerciale e il reperimento di nuovi sponsor, verrebbe resa molto più semplice da un approccio più elastico per quel che riguarda la collocazione in calendario e anche l’eventuale assegnazione di punti per la classifica ATP. L’accordo scaduto e mai rinnovato nel 2016 che assegnava punti validi per il ranking mondiale (proprio nel 2016 Andy Murray poté contare su ben 1200 punti provenienti dalla Davis nella sua rincorsa al n. 1) potrebbe favorire il ritorno in auge della Coppa Davis aumentandone l’attrattiva per tutti i giocatori, tranne forse i primissimi, e di conseguenza anche degli sponsor.
Al momento l’ITF sembra decisa a continuare con la formula attuale che però sembra in disperato bisogno di aggiustamenti. L’eliminazione della Spagna, nazione ospite della fase finale di novembre, ha messo in luce una crepa del meccanismo che dovrà essere sistemata al più presto: gli incontri di Davis in campo neutro faticano tremendamente a produrre quell’atmosfera che per più di un secolo ha reso speciale la Davis, e il conciliare questa verità di fondo con il grande potenziale commerciale dei gironi all’italiana sarà fondamentale per trovare la strada giusta per il futuro.
Ma riuscirà la Federazione Internazionale a ottenere le concessioni di cui ha bisogno dagli altri membri del T-7 per avere il margine di manovra necessario per i cambiamenti del caso? E riuscirà a trattare anche con un elemento “ibrido” come la Laver Cup che, nonostante abbia ricevuto investimenti pesanti da Tennis Australia e dalla USTA e abbia l’appoggio dell’ATP, è comunque un’ entità indipendente?
Saranno le risposte a queste domande che probabilmente ci diranno che direzione prenderà l’opera di definizione della Coppa Davis 3.0.