ITIA, (forse) abbiamo un problema. L’ITIA (International Tennis Integrity Agency) è l’agenzia che si occupa dell’integrità del tennis internazionale, il problema riguarda la questione degli ormai sempre più famosi whereabouts dei giocatori, tenuti a comunicare costantemente la loro posizione e una fascia oraria di reperibilità per essere sottoposti ai test anti-doping, e il “forse” è dovuto ai due indizi che, rifacendoci ad Agatha Christie, non fanno ancora una prova ma quasi. A dire il vero di indizi ne abbiamo due e mezzo: c’è infatti il ben noto caso di Mikael Ymer, squalificato per 18 mesi lo scorso luglio e poi ritiratosi a 25 anni a mo’ di protesta silenziosa e allo stesso tempo clamorosa; segue la fresca notizia della sanzione (identica a quella dello svedese) comminata a Jenson Brooksby, che si era volontariamente sospeso già da luglio; infine, ricordiamo anche il rischio corso da Fognini su cui incomberà ancora per qualche mese la spada di Damocle di un eventuale terzo controllo antidoping saltato che sarebbe quasi sicuramente sinonimo di squalifica.
I casi, insomma, iniziano a diventare tanti. Non in termini assoluti ma relativi dal momento che prima di Ymer non si registrano precedenti di sorta nel tennis (se non per un’indagine del 2018 nei confronti di Alizé Cornet, poi scagionata). Per capire meglio se vi sia effettivamente un problema, cerchiamo quindi di ricostruire quanto successo a Brooksby, alla ricerca di eventuali parallelismi con la situazione che ha riguardato Ymer (qui la versione dello svedese, mentre qui potete trovare la sentenza definitiva del TAS di Losanna).
Il caso Brooksby
Il giocatore americano, protagonista di un 2023 a tutti gli effetti da incubo considerata anche la duplice operazione ai polsi che non gli ha permesso di giocare alcun torneo dopo l’Australian Open, ha saltato il secondo dei tre tentativi falliti di testarlo il 4 giugno del 2022, quando si trovava a s’Hertogenbosch. Jenson non ha contestato le altre due violazioni ma ritiene di aver fatto tutto il possibile per essere reperibile dove e quando comunicato in quell’occasione. Il tribunale indipendente dell’agenzia Sports Resolutions, a cui l’ITIA si affida in questi casi, non è stato dello stesso avviso e ha deciso per la squalifica di 18 mesi (Ymer, invece, era stato assolto in primo grado) che terminerà il 4 gennaio 2025. Ora Brooksby ha 21 giorni per presentare ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna e far valere le sue ragioni, espresse all’interno di un post Instagram dopo l’ufficialità della squalifica.
- LA VERSIONE DELL’AMERICANO
L’ex numero 33 del mondo (ora uscito addirittura dai primi 300, è n. 301) afferma di essere rimasto nella sua camera dell’albergo del torneo olandese tra le 6 e le 7, esattamente come aveva indicato sulla piattaforma WADA dedicata ai whereabouts. Fino a quella stessa mattina, però, la camera era prenotata a nome del suo fisioterapista in quanto l’ATP non gli aveva ancora formalmente fornito una sistemazione. Proprio il 4 giugno, quindi, Brooksby avrebbe dovuto effettuare il check-in in albergo per diventare effettivamente l’intestatario della prenotazione. Tuttavia, l’americano aveva già chiesto che fosse aggiunto il suo nome e, oltretutto, aveva anche consegnato in reception il suo passaporto per farsi consegnare una chiave in più. Ciononostante, però, quando l’addetto al controllo antidoping (DCO – Doping Control Officer) si è presentato in albergo, gli è stato riferito che Brooksby non aveva ancora fatto il check-in per la camera che avrebbe dovuto essere sua da quel giorno.
A quel punto, il DCO non ha chiesto di chiamare al telefono della stanza ma ha cercato di contattare il giocatore al cellulare. “Il DCO mi ha chiamato al cellulare che era in modalità silenziosa alle 6.56, quattro minuti prima che terminasse la finestra oraria. Se avessero chiamato in stanza avrei sicuramente fatto il test perché ero sveglio e non avevo nulla da nascondere” – dice Jenson. In attesa della pubblicazione della sentenza, possiamo immaginare che i giudici abbiano ritenuto comprensibile la scelta del DCO di non telefonare in stanza: se Brooksby non aveva effettuato il check-in, come gli era stato detto, l’addetto non aveva infatti motivo di pensare che il tennista fosse in quella camera. Per quanto riguarda poi la telefonata che potremmo definire last minute, già la sentenza del caso Ymer – anche lui chiamato senza risposta negli ultimi minuti della fascia di reperibilità – ha specificato che il DCO non ha alcun obbligo di contattare con maggior margine il giocatore interessato.
- LE TELEFONATE LAST MINUTE
I dubbi e i punti interrogativi che rimangono aperti sono però tanti. A partire proprio dalla questione delle telefonate all’ultimo effettuate dagli addetti, sebbene forse sia quella meno importante. L’obiettivo e l’interesse delle agenzie preposte ai controlli antidoping e dunque dei loro dipendenti dovrebbe infatti essere quello di effettuare i test. Il buon senso – che comunque nulla ha a che vedere con i doveri formali – imporrebbe quindi di fare tutto il possibile per sottoporre il giocatore interessato al controllo, magari chiamandolo con un certo anticipo rispetto alla deadline dell’ora di reperibilità, soprattutto quando si è di fronte a un potenziale terzo e decisivo test saltato. E, secondo quanto affermato da Ymer nel suo ultimo sfogo prima del ritiro, è quello che succederebbe in diversi casi: “Il mio avvocato è riuscito a provare che in altre occasione gli agenti si sono astenuti dall’applicare il protocollo in maniera così rigida, avvertendo altri sportivi professionisti che si trovavano nella mia stessa situazione per tempo. Quindi è chiaro: è la WADA che decide quando applicare rigidamente il protocollo, quando no, e soprattutto, nei confronti di chi”.
- DOV’È LA NEGLIGENZA?
Restando sul caso specifico di Brooksby, sarà interessante capire per quale motivo il tribunale indipendente ha considerato negligente il giocatore americano. Stando alla versione di quest’ultimo, infatti, la reception avrebbe dovuto avere già gli elementi necessari per effettuare la registrazione di Brooksby o comunque per tenere traccia della sua presenza in quella stanza. Insomma, sembrerebbe che Jenson abbia fatto tutto il possibile per risultare quantomeno co-intestatario della prenotazione. L’altra possibile fonte di negligenza potrebbe essere costituita dall’aver tenuto il cellulare in modalità silenziosa, ma se l’iter di contatto prevede l’utilizzo del telefono delle camere d’albergo, l’americano non avrebbe avuto di che preoccuparsi.
I whereabouts: un sistema da modificare?
Veniamo ora ad alcune questioni più generali, legate sì ai casi trattati ma che vanno anche al di là di essi, senza con ciò voler mettere in discussione l’utilità e la necessità di un sistema fondamentale per l’integrità del tennis professionistico.
- IL PROGRAMMA DI LOCALIZZAZIONE È TROPPO COMPLICATO?
Secondo l’avvocato di Brooksby, Howard Jacobs, “i whereabouts sono un requisito piuttosto difficile per i tennisti, considerato quanto viaggiano”. Un’affermazione piuttosto condivisibile che trova conferma nel fatto che sia Ymer che lo stesso Brooksby non abbiano contestato la maggior parte delle violazioni commesse: ciò significa che in alcuni casi si è di fronte a vere e proprie dimenticanze che però possono essere comprensibili se inquadrate in un contesto di continui spostamenti, cambi di programma e impegni che vanno oltre le singole partite e che riguardano non solo i giocatori ma anche chi li aiuta nella gestione degli aspetti extra-campo.
- LA SOGLIA DI TOLLERANZA È TROPPO BASSA?
Alla luce di quanta attenzione richieda il programma di localizzazione (tanto che il CEO dell’ITIA Karen Moorhouse ha ricordato che l’Agenzia offre “supporto e formazione regolari a tutti i giocatori che fanno parte del programma di permanenza e ci rendiamo disponibili a rispondere a qualsiasi domanda”), avere la possibilità di saltare solo due test in dodici mesi senza avere ripercussioni potrebbe sembrare una misura fin troppo stringente. A maggior ragione, se nel frattempo i controlli a cui ci si sottopone in maniera regolare sono tanti oltre che negativi. Insomma, una soluzione potrebbe essere non tanto quella di alzare la soglia di tolleranza, ma di adottare come riferimento la percentuale rispetto al totale dei tentativi di test. Va ricordato, infatti, che sia nel caso di Ymer che in quello di Brooksby, non è stato avanzato il minimo sospetto su un’eventuale assunzione di sostanze proibite, in quanto i test effettuati prima e dopo quelli saltati hanno sempre avuto esiti negativi.
- LE SQUALIFICHE SONO TROPPO SEVERE?
Una naturale conseguenza di quanto affermato in risposta alle domande precedenti riguarda il discorso sulla pesantezza delle squalifiche. Il regolamento, in casi del genere, prevede una squalifica tra i 12 e i 24 mesi. In attesa delle motivazioni della sentenza di primo grado nella vicenda Brooksby che spiegheranno perché si è optato per una via mediana tra la pena massima e quella minima, rileggendo quella del TAS nel caso Ymer si apprende che i 18 mesi di squalifica sono frutto di un grado di colpa ritenuto “alto anche se il terzo Whereabouts Failure può essere descritto come il risultato di una negligenza colposa”. Le sentenze – si sa – vanno rispettate ma ci si potrebbe legittimamente chiedere se in un caso così controverso come quello dello svedese non sarebbe stato più giusto, se di condanna si doveva trattare, applicare la sanzione minima.
La questione più rilevante, però, sta alla base: il regolamento prevede infatti pene che superano quelle emesse nei confronti di giocatori che risultano effettivamente positivi ai test antidoping. Non è certo il caso di Simona Halep, squalificata per 4 anni, ma non mancano gli esempi di sanzioni molto tenui (tra cui ricordiamo quelli di Verdasco – 2 mesi – e Jarry – 10 mesi). Si tratta ovviamente di situazioni in cui viene provata la buona fede dei giocatori. Squalifiche di 18 mesi, come quelle di Ymer e Brooksby, possono quindi trovare una ragione solo in una malafede (nel senso di volontà di imbrogliare, per essere più chiari) che però non sembra assolutamente riscontrabile in nessuno dei due casi.