3. Karolina Muchova
La maggiore sorpresa dell’ultimo Flushing Meadows è stata Karolina Muchova. Reduce da nove mesi di stop per un problema al polso, rientrata nelle competizioni a inizio estate, era in tabellone da numero 52 del ranking; eppure è riuscita a ripetere la semifinale dello scorso anno.
Spesso la frase fatta che si associa a una giocatrice come Muchova è “talento cristallino”. Solo che nel caso di Muchova di cristallo non è solo il talento ma anche il fisico. Per una ragione o per l’altra c’è sempre un infortunio a guastare i suoi progetti di affermazione. Riassunto del suo curriculum medico, riferito solo agli ultimi anni: infiammazione al polso, poi un grave problema agli addominali con seria ricaduta, quindi problemi al piede, infine di nuovo il polso con annesso intervento chirurgico. E sicuramente dimentico qualcosa.
Tutti questi infortuni hanno causato pause dal tennis di durate variabili con ranking in salita e discesa come le montagne russe. Per dare una idea di quanto poco abbia giocato in queste ultime stagioni: appena 17 match in tutto il 2024, 51 partite nel 2023 (anno in cui ha infatti raggiunto la Top 10), 23 match nel 2022, 27 nel 2021, 15 nel 2020. L’anno scorso avrebbe avuto diritto di partecipare alle WTA Finals, ma ha dovuto rinunciare perché il polso non glielo ha permesso. Eppure Karolina sembra una fenice: ogni volta trova la forza di rinascere dalle sue ceneri.
Tra un infortunio e l’altro, Muchova ha conquistato una finale al Roland Garros nel 2023 (unica giocatrice in grado di strappare un set a Swiatek in finale a Parigi), due semifinali allo US Open (2023 e 2024), una semifinale all’Australian Open 2021 (ultima ad avere sconfitto Barty a Melbourne). E in più, di contorno, due quarti di finale a Wimbledon (2019 e 2021). Piccolo record recente: a Wimbledon 2019 aveva raggiunto i quarti di finale da esordiente. Se si tiene conto che in carriera ha vinto un solo titolo WTA (nel 2019 a Seoul) si capisce come Karolina sia giocatrice da grandi eventi. Pochi match ma buoni, verrebbe da dire.
C’è un legame particolare tra lo US Open e Muchova, perché questo torneo è stato lo scenario della partita che l’ha fatta conoscere al mondo. Dobbiamo tornare al 2018, a un secondo turno serale sul Louis Armstrong. Karolina è una totale sconosciuta, una semplice qualificata numero 202 del ranking. Sembra destinata a fare la vittima sacrificale della sua avversaria, Garbiñe Muguruza, allora numero 12 del mondo.
Per la prima volta Muchova si trova al centro dell’attenzione, in uno stadio da 15 mila posti. L’inizio è complicatissimo: in pochi minuti è sotto 0-5. Poi però comincia a trovare tempi e misura dei colpi: risale 3-5, e da quel momento, anche se perde il primo set, sorprende gli spettatori grazie a un gioco molto vario, inusuale nella sua classicità. Alcuni punti sembrano tratti da schemi tipici del tennis di attacco degli anni ’70-’90 del secolo scorso.
Karolina mostra agli appassionati un repertorio in cui sono determinanti i movimenti sulla verticale: palle corte, slice seguiti da discese a rete, attacchi in controtempo, serve&volley. I movimenti in avanti di quel match saranno 37, di cui 29 soltanto nei due set conclusivi. Muchova finirà per vincere 3-6, 6-4, 6-4.
Il sito WTA commenta l’upset della serata con un titolo inequivocabile: la definisce “Marvelous Muchova”. La partita si conclude dopo mezzanotte negli USA; aggiungeteci le ore di fuso orario e si capisce che in Europa in pochi hanno la fortuna di seguirla. Ma chi, come me, era davanti alla TV quella notte, non può più dimenticarla.
Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti, ma molte delle caratteristiche di Muchova sono rimaste le stesse. Qualcosa però è anche cambiato. Per esempio ha imparato a gestire i match e le situazioni, a volte un po’ a discapito della spettacolarità. E così se trova avversarie non proprio in gran giornata, può capitare che decida di puntare soprattutto sulla variazione degli spin e della velocità dei colpi al rimbalzo (visto l’ampiezza del suo arsenale, se lo può permettere) senza cercare troppi rischi o vincenti a effetto. L’obiettivo è mettere l’avversaria a disagio, impedendole di esprimersi al meglio. Nell’ultimo US Open, contro Paolini, ha fatto soprattutto questo, chiudendo la pratica in due set (6-3, 6-3). Scelta simile per lunghi tratti di match anche contro Haddad Maia (6-1, 6-4).
Discorso differente nella semifinale contro Pegula, avversaria in grande forma e in piena fiducia. In questo caso Muchova ha dovuto dare fondo a tutto il repertorio. È riuscita a mantenere il controllo del gioco per un set e mezzo, sino al 6-1 2-0 (e palla del doppio break 3-0). A questo punto Jessica ha reagito, mentre da parte di Muchova è affiorata la necessità di rifiatare. Il tennis è come un sistema di vasi comunicanti sotto pressione: se uno dei contendenti scende, sale l’altro; e viceversa.
Pareggiato da Pegula il secondo set, la partita era ormai indirizzata. Muchova infatti non è mai stata un mostro di resistenza, a maggior ragione in questo periodo con poco tennis alle spalle. Non per nulla era arrivata sino alla semifinale vincendo sempre in due set: una volta obbligata al terzo, la competitività è nettamente scesa.
Diminuita la brillantezza, sono emersi anche suoi storici limiti: se le gambe non sono perfette, il rovescio rischia spesso di tradirla. E quando cala la reattività, ne risentono anche i colpi di volo. In queste situazioni si deve aggrappare al servizio (migliorato nel corso degli anni) e al dritto; ma se l’avversaria è di prima fascia difficilmente possono bastare. E così in finale ci è andata Jessica Pegula (1-6, 6-4, 6-2).
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