Alla fine di questa settimana cominciano le WTA Finals, il torneo più importante organizzato dalla WTA, l’associazione delle tenniste professioniste. Per come sono concepite, le Finals sono il coronamento dell’impegno profuso da tutte le giocatrici nell’arco di dieci mesi, da gennaio a ottobre, e hanno diritto a parteciparvi le migliori per quantità di punti ottenuti nel 2024. Sarà un torneo dal valore doppio, visto che oltre al titolo di “Maestra” è ancora in palio il numero 1 di fine anno; ma anche il terzo posto della classifica è raggiungibile da più giocatrici, Paolini inclusa.
Questo sul piano tecnico. Ma le Finals per WTA sono anche l’evento più importante sul piano economico, dato che, a differenza degli Slam, l’organizzazione e la scelta della sede competono direttamente alla Associazione. Sotto questo aspetto le ultime annate del torneo sono state piuttosto tribolate: tre edizioni ogni volta con sede diversa (Guadalajara, Forth Worth, Cancun), sede decisa in extremis e almeno in un caso con un evidente problema di partecipazione del pubblico (Forth Worth 2022).
Se risaliamo a un quinquennio fa, la situazione del Masters femminile appariva molto differente. Anno 2019: il CEO di WTA, Steve Simon, ha appena definito un contratto faraonico con la Cina. L’accordo prevede una sede stabile per dieci anni, con addirittura un nuovo impianto al coperto costruito specificatamente per la manifestazione (a Shenzhen) e un montepremi enorme. Per la prima edizione del 2019 sono messi a disposizione 14 milioni di dollari, mentre in quel momento la stessa competizione a livello maschile ne offre “appena” nove.
Nel 2019 il palazzetto definitivo non è ancora pronto, ma questo non impedisce che si giochi comunque a Shenzhen con i famosi 14 milioni di dollari di montepremi, e con la vittoria conquistata dalla numero 1 del mondo Barty. Sembra quasi l’inizio di una nuova era, anche se non è tutto oro quello che luccica: il campo non è realizzato al meglio, il pubblico manca nei primi incontri e a pochi chilometri da Shenzhen, a Hong Kong, proprio in quei giorni si vivono seri problemi di ordine pubblico per le proteste in corso da parte degli abitanti della ex colonia britannica.
Poi arriva il 2020, e per le Finals tutto cambia. A causa della pandemia, la Cina è restia alla riapertura delle manifestazioni sportive internazionali organizzate sul proprio territorio. Risultato: mentre l’ATP alla fine del 2020 riesce comunque a organizzare il Masters, la WTA rinuncia alla propria edizione, che sarebbe stata quella del cinquantenario.
Anno 2021: la Cina è ancora con le frontiere chiuse per quanto riguarda i grandi eventi sportivi e quindi si va alla ricerca di una sede temporanea. La si trova in Messico, a Guadalajara, con il montepremi che scende drasticamente, a 5 milioni di dollari. Ma il problema decisivo nasce a fine anno: nel novembre 2021 scoppia il caso Peng Shuai, che compromette i rapporti tra Cina e Associazione giocatrici. Steve Simon dichiara che fino a che non verrà risolta la situazione non ci saranno più tornei WTA in Cina.
Insomma, alla base del rifiuto del ritorno in Cina dopo la pandemia c’è una importante questione di diritti umani, che viene considerata preponderante sul puro business. Il prezzo che paga WTA non è cosa da poco: cancellando tutti i tornei cinesi, non solo viene a mancare l’architrave dello swing asiatico di fine stagione, ma anche la sede decennale per il Masters femminile.
Poi passano le stagioni e, come si dice con una frase fatta, passa anche tanta acqua sotto i ponti. WTA fatica a trovare una sede stabile e ben remunerata, fino a che non si arriva al 2024, con lo spostamento a Riyadh, in Arabia Saudita (sorteggio martedì pomeriggio alle 16 italiane). Contratto triennale, con un montepremi per il primo anno di 15.250.000 dollari, esattamente lo stesso previsto per il Masters maschile (che andrà in scena a Torino). Dichiara Steve Simon: “Portare le finali WTA a Riyadh è una nuova entusiasmante opportunità per noi, e un passo positivo per la crescita a lungo termine del tennis femminile come sport globale e inclusivo”.
Tutto è bene quel che finisce bene? In realtà non mancano le critiche per la decisione da parte di WTA di organizzare il proprio torneo-vetrina in una nazione che non brilla per i diritti delle donne. Critiche che provengono da molte voci, tra cui quelle di Chris Evert e Martina Navratilova, che senza giri di parole scrivono in una lettera al Washington Post: “Ci opponiamo all’idea di assegnare a Riyadh il più importante torneo del circuito femminile. I valori di WTA si trovano in netto contrasto con quelli della nazione ospitante proposta”. (“We oppose the awarding of the tour’s crown jewel tournament to Riyadh. The WTA’s values sit in stark contrast to those of the proposed host”).
Come valutare la conduzione e le scelte di questi ultimi anni da parte di Steve Simon? Per quanto mi riguarda, prima ancora di prendere in considerazone criteri e convinzioni personali (se sia cioè preponderante il business o la questione dei diritti civili) faccio fatica a promuovere la gestione perché non riesco a trovare coerenza nella decisioni. Si rinuncia alla Cina perché i diritti delle persone sono prevalenti su tutto, e poi si decide che la sede migliore è quella dell’Arabia Saudita.
Non solo: fino al gennaio 2023 WTA ribadisce che “i tornei in Cina riprenderanno solo quando il caso Peng sarà risolto”. Salvo poi fare dietro-front quattro mesi dopo: in aprile viene comunicato che si tornerà invece a giocare in Cina perché “quando una strategia non funziona non si può continuare a fare sempre la stessa cosa”. Quindi davvero Steve Simon era convinto di avere la capacità di far cambiare la posizione della Cina attraverso il boicottaggio WTA? Cina da una parte, WTA dall’altra: considerate le forze in campo, chissà chi sarebbe riuscito a prevalere…
Non voglio infierire, perché è giusto tenere presente che la pandemia ha mandato in crisi la gestione dello sport a livello globale (basti pensare che le Olimpiadi di Tokyo 2020 si sono disputate nel 2021). Direi però che il management WTA ci ha messo del suo per ingarbugliare la situazione, prendendo decisioni sulla scorta di linee guida incoerenti: contano di più i diritti delle persone o il business? A volte più una cosa, a volte più l’altra. Non sorprende quindi che di recente ci siano stati cambiamenti ai vertici WTA.
In più Steve Simon è stato anche sfortunato. Probabilmente non l’ha detta Napoleone, ma torna comunque in mente la frase “meglio un generale fortunato che uno bravo”. Perché sembra proprio beffardo il rapporto tra sedi scelte e nazionalità delle giocatrici partecipanti. Nel 2022 e nel 2023 si era qualificata per le Finals Ons Jabeur, tunisina, un autentico simbolo dello sport arabo al femminile. Ma si giocava in nordamerica. Nel 2024 ci si trasferisce in Arabia Saudita e Jabeur va incontro a una stagione piena di problemi fisici che le impediscono di guadagnarsi l’ammissione. In compenso entra fra le prime otto Zheng Qinwen, cinese, che avrebbe fatto molto comodo se si fosse giocato a Shenzhen… Insomma, la sorte non ha voluto una sede accompagnata da una beniamina che facesse da traino alla manifestazione.
Speriamo si riesca comunque ad avere una degna cornice di pubblico, dato che sotto questo aspetto le edizioni disputate a Doha tra il 2008 e il 2010 non erano state molto incoraggianti. Perché per quanto si possano fare artifici con le luci e le inquadrature televisive, un evento con poca partecipazione di spettatori finisce per comunicare una sensazione insoddisfacente. Certo, Doha non è Arabia Saudita, ma ci sono sufficienti affinità (culturali e geografiche) per fare un parallelo tra le due sedi.
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