Pareri contrastanti. In queste settimane di intenso e onnipresente tennis, oltre ai vari tornei, incontri, sorprese e interviste una questione che sembrava ormai passata è tornata a bussare alla porta del circuito professionistico. Il coaching da fuori campo. Pratica liberalizzata nel circuito ATP in seguito al torneo di Wimbledon 2022 – inizialmente era un test per la seconda metà della stagione – e successivamente divenuta regola ufficiale, che non ha fatto altro che mettere per iscritto ciò di cui i tennisti si servivano da molti anni a questa parte.
L’ITF da poco si è mossa seguendo questo trend. Dal 2025, infatti, il coaching sarà permesso anche in tutte le competizioni della Federazione Internazionale e ciò vuol dire che in tutti i tornei del calendario professionistico maschile quella pratica potrà continuare a svilupparsi liberamente.
“Non cambierà molto con il coaching. Anche quando non si poteva, comunque guardavi l’allenatore e ti faceva qualche segno” – le parole di Jannik Sinner dopo la sua prima vittoria alle ATP Finals di Torino 2024. “Basta un millisecondo. Alla fine, però, è sempre il giocatore a dover trovare una soluzione”.
In sostanza non è cambiato, non cambia e non cambierà nulla con l’ufficializzazione di questa dinamica, in qualche modo aggirabile anche prima di quell’11 luglio 2022. I team dei giocatori sono seduti a bordo campo e, come confermato dal numero 1 al mondo, un loro sguardo, un gesto o una parola detta anche a bassa voce può veicolare un suggerimento preziosissimo. Poi la partita chiaramente la gioca il tennista e durante lo scambio è lui a dover valutare e decidere quale strategia mettere in pratica.
Ma se la squadra di ogni giocatore invece di essere vicina al campo fosse seduta più in alto, quindi fuori dalla portata visiva dei tennisti? Questi ultimi, e soprattutto quelli che dal coaching ricavano risorse importanti durante i match, cosa direbbero e come si comporterebbero?
Nessun dubbio per Taylor Fritz, che a più riprese ha espresso il suo malcontento riguardo questa pratica. “Dobbiamo smettere di rovinare l’aspetto strategico-mentale degli sport 1 contro 1” – il suo primo commento dopo l’allineamento dell’ITF sul coaching fuori campo.
E dopo il suo primo successo a Torino, interrogato più ampiamente su questo argomento, il numero 1 americano ha continuato a gettare legna sul fuoco. “Non voglio che un coach possa dire a un giocatore cosa dovrebbe fare, perché spesso succede che il tennista e l’allenatore percepiscono cose diverse da dentro e da fuori campo. La battaglia mentale dell’uno contro uno è un aspetto molto importante del gioco e l’aspetto strategico dovrebbe rimanere confinato solamente tra i tennisti in campo. Nei contesti di squadra il coaching ha anche senso, ma nei tornei individuali per me no”.
In passato questo pensiero è stato condiviso pure da altri giocatori o ex professionisti della racchetta: Kyrgios (“Così si perde uno dei tratti unici che questo sport aveva. Cosa succede se un tennista di alto profilo gioca contro uno di basso profilo che non può permettersi un coach?”), Roddick (“Alcuni giocatori condividono l’allenatore e ciò comporta problemi di programmazione”) e Moya (“La battaglia in solitario è tipica del tennista ed è lì che scopri la qualità del giocatore. Qui sta il fascino del tennis. Il lavoro dell’allenatore va fatto prima della partita”).
Allo US Open 2023, invece, Novak Djokovic ha espresso parole totalmente opposte riguardo il coaching da fuori campo che, secondo la sua opinione, aiuterebbe lo stato mentale dei giocatori. “Non è facile farlo come in altri sport. Spesso servono gesti e segni codificati. Usufruire del coaching mi rende ancora più forte e consapevole dei miei mezzi. Se ci fosse la possibilità di averne ancora di più – tipo mediante cuffie – io sarei favorevole, perché credo sia positivo per questo sport e per lo stato mentale dei giocatori. Se anche il pubblico potesse ascoltare i colloqui tra tennista e allenatore, penso che sarebbe solo contento”.
E sull’onda di Sinner, ma solo un anno e qualche mese prima, il 37enne di Belgrado aveva replicato a tutti coloro che pensano che il meccanismo del rigido 1 VS 1 in tutti gli aspetti del gioco sia imprescindibile per mantenere intatto il fascino di questo sport. “Anche se un allenatore interviene in un momento delicato della partita, è comunque il tennista in campo che deve giocare”. Infine, la frase di chiusura che ammette ciò che è sempre stato sotto gli occhi di tutti, anche prima di qualsiasi regolamentazione ufficiale. “Sono molto felice che ciò sia permesso. Sicuramente è meglio che farlo di nascosto come abbiamo fatto per diversi anni”.
Totalmente (o apparentemente?) indifferente, invece, il parere di Danil Medvedev su tale questione. “Non penso ci sia differenza. Per me non è un problema, non ho niente in contrario anche se il coach del mio avversario dovesse ad esempio dirgli di servire sul mio dritto”.
Ognuno vede il tennis in maniera diversa. Basta ascoltare le opinioni dei professionisti sopracitati per comprendere ciò. Sembrerebbe quindi una questione soggettiva che, ricordiamolo ancora una volta, ha visto un capovolgimento di rotta nell’ATP prima e nell’ITF poi. Questi due enti tennistici ci hanno ripensato oppure non sanno come mettere paletti a una pratica diventata sempre più frequente?