Ho incontrato Neale Fraser decine di volte e, non lo dico adesso perché ci ha lasciato, ma era un grande uomo, quasi non fosse consapevole della sua grandezza perché persona modesta, semplice eppure notevolmente intelligente e dotato di grande sense of humour… prima ancora che un grande campione capace di vincere una dozzina di Slam in doppio, quasi sempre in coppia con Roy Emerson per come lo ricordo senza andare su Wikipedia (io ho sempre amato il doppio forse perché lo giocavo molto meglio che non il singolo e ai suoi tempi e fino all’epoca dei Newcombe-Roche, Mc Namara-McNamee e McEnroe-Fleming il doppio era un cosa seria) e 3 Slam in singolare, 1 Wimbledon (l’anno di Pietrangeli in semifinale: “Se Nicola avesse battuto Rod Laver in semifinale come avrebbe potuto benissimo anziché perderci 6-4 al quinto – mi diceva sempre Neale sapendo che lo avrei ridetto a Nicola – da lui avrei probabilmente perso! Sono più le volte che ci ho perso che quelle che ho vinto…”) e 2 US Open. Ma una cosa che non riusciva tanto a digerire, anche se ci scherzava sopra prendendo in giro l’amico Fred Stolle (che gli aveva ”rubato” il compagno di doppio perché si era messo a giocare con Emerson) …era “aver perso 3 volte la finale dell’Australian Open e una con il matchpoint a favore…Però tu Fred hai fatto peggio di me, a Wimbledon la finale l’hai persa 3 volte di fila!!”.
Roy Emerson lo chiamava “generale” sul campo. In doppio c’è sempre una guida e Neale lo era. Pat Cash invece era tentato di chiamarlo “Dad”: “Per me Neale era davvero come un padre!”
Ero a Dusseldorf nel ’93 quando Australia e Germania si affrontarono nella finale di Coppa Davis. Fu lì che dopo 28 anni e 74 incontri di capitano di Team Australia (54 vinti! Un record difficile da battere…), con 4 Coppe Davis conquistate, Neale, 60 anni, aveva deciso di dare l’addio al suo ruolo.
Ma quella decisione, maturata da tempo, l’aveva nascosta fino alla fine dell’incontro. Avrebbe potuto annunciarlo durante la cerimonia di presentazione, quando avrebbe avuto maggior eco, ma era un uomo troppo schivo e sensibile per fare qualcosa che oggi – in tempi di social –sarebbe stata notizia da giro del mondo e soprattutto in Australia. Non era il caso, invece, di distrarre i propri giocatori alla vigilia di una finale di Coppa Davis.
Lo annunciò a fine conferenza stampa di fine match e ero fra quelli che lo applaudirono più vigorosamente. Perché era impossibile non stimarlo.
Anche se aveva debuttato in Davis come giocatore soltanto nel ’58 a 25 anni quando i “gemelli” Rosewall e Hoad – di un anno più giovani – l’avevano fatto da teenagers, per 5 anni Neale aveva fatto parte del team aussie capitanato dall’altro più grande “coach” australiano, Harry Hopman. E’ a lui che succedette in quel ruolo, ma non senza aver prima vinto 11 singolari su 12.
“Quando Hopman ci ordinava “Salta!” si saltava. Non si poteva discutere. Quando io diventai capitano l’epoca della disciplina militaresca era scomparsa…un capitano di Coppa Davis non poteva più ordinare né pretendere. Dovevo negoziare… anche se avevo degli straordinari ragazzi con cui trattare”.
“La prima cosa che dovetti fare fu convincere i giocatori, che si erano legati come professionisti al WCT, a giocare la Davis. Newcombe fu il primo: stava facendo un bangno in una vasca a Wimbledon quando andai a parlargli. E si dichiarò d’accordo per giocarla. Poi andai da Rosewall e mi disse: ok!. Quindi da Laver e gli dissi: ‘Ma ti rendi conto che super squadra saremmo se ci fossi anche te?”.
Un anno dopo quegli sforzi mediatici dell’ambasciator Fraser furono ripagati. Nel 1973 a Cleveland l’Australia battè in finale 5-0 gli Stati Uniti.
Delle quattro squadre che con lui hanno vinto la Davis Neale ricordava soprattutto proprio la prima.
“Aver capitanato quella squadra del 1973, con anche Mal Anderson a fare il quarto, fu speciale: fu la prima volta che la finale di Davis fu giocata indoor e quella è stata secondo me la squadra più forte che sia mai stata schierata sul campo”.
“La Davis è un evento unico. Tanti giocatori fortissimi a livello individuale in Davis sentivano l’emozione e fallivano, così come altre giocatori si esaltavano. John Alexander era uno di questi ultimi”, mi diceva ricordando quante volte Alexander (contro il quale per l’appunto io avevo giocato contro al Trofeo Bonfiglio arrampicandomi perfino a un doppio setpoint nel primo set quando il tiebreak non c’era ancora: persi 9-7 6-3 e la cronaca sulla Gazzetta è lì a ricordarlo, mi pare la scrisse Enrico Campana) aveva battuto i nostri Panatta e Barazzutti.
Ma proprio una partita di semifinale a Roma nel 1976 contro la nostra Italia era per lui uno dei più brutti ricordi: “John (Alexander) vinse entrambi i singolari, lottando come un leone, ma perdemmo. Nel ’77 ci prendemmo però una bella rivincita…”.
Mi piacerebbe aver più memoria e più tempo per ricordare altri mille aneddoti. Magari, anche se l’articolo sarà già uscito, ne aggiungerò degli altri più tardi. Questo è uno dei pochi vantaggi di Internet e del digitale.