Dannato tennis, dannate passioni! Sì, perché esiste un fuoco sacro – quasi impercettibile – nascosto all’interno dell’anima di chi ama alla follia il cosiddetto sport del diavolo e che brucia, come se non ci fosse un domani, ogni qualvolta venga innescata la fiammella dei ricordi (anche in maniera involontaria, ça va sans dire). Jimmy Connors è stato una rockstar. Una vera rockstar. Uno di quelli che trattavano la racchetta così come Hendrix o Page maneggiavano la chitarra elettrica. Epperò, a differenza dei sopraccitati (nonché grandiosi) musicisti, per lui il tennis non rappresentava un mero atto di ribellione, ma una sorta di indomabile voglia di riscatto rispetto ad alcune (imponderabili) dinamiche della vita. Per chi scrive, Connors ha rappresentato soprattutto la rivincita degli outsider (no, la citazione non è affatto casuale).
E poco importa se quando il caro vecchio “Jimbo” riusciva ad imporsi in prosceni dorati come Wimbledon e lo US Open, il sottoscritto non fosse stato neanche ipotizzato dai propri genitori. Il tennis, come l’esistenza, è un treno in corsa che si affaccia su un paesaggio in continua evoluzione. Certo, il suo bagaglio tecnico non è mai stato da manuale del tennis e alcuni atteggiamenti (a volte discutibili) sul campo di gioco non lo hanno fatto brillare in simpatia di fronte al pubblico più generalista. Per Connors, infatti, disputare un incontro di tennis equivaleva a farsi un giro nel suo macrocosmo più profondo. Dove solo pochi, pochissimi “eletti” vi potevano avere accesso. Va da sé, naturalmente, che questo ed altri dettagli, li ho intuiti solo col tempo. Grazie a un libro, soprattutto. “Jimmy Connors Mi Ha Salvato La Vita”.
L’autore, Joel Drucker – collaboratore per varie riviste dedicate al tennis, nonché professionista della comunicazione in generale – ne avrebbe voluto fare una doppia biografia: la propria e quella di Jimmy (che in un primo momento aveva dato il suo assenso). Alla fine, Connors ha deciso di ritornare sui suoi passi, ma Drucker è andato dritto per la propria strada, raccontando la sua vita da ragazzo californiano – nato nel 1960 – riflessa attraverso le gesta del tennista americano. Un incrocio di destini. L’opera in questione racconta della passione di Drucker per il tennis e per quel ragazzone un po’ introverso, del rapporto di quest’ultimo con mamma Gloria, della storia tormentata con Chris Evert, dei favolosi anni Settanta di Gerulaitis, McEnroe e Borg.
Aneddoti gustosi ed analisi approfondite si susseguono lungo il cammino tracciato dallo scrittore. Scandagliando in maniera approfondita le quasi quattrocento pagine di cui è composto il libro, risulterà piuttosto difficile non empatizzare con i suoi protagonisti. Già, perché, lungo il percorso da lui magistralmente raccontato, Joel Drucker non si dimostra solo un ottimo addetto ai lavori e un grande appassionato del magico mondo della racchetta, ma una personalità sensibile e oltremodo determinata. Mentre il ritratto di Connors, è quello di un uomo i cui orizzonti (e valori) vanno ben al di là degli 8 Slam conquistati (tutti eccetto il Roland Garros), degli innumerevoli tornei vinti, del suo magico ‘91. Un personaggio controverso, forse, ma proprio per questo, maledettamente umano.
Ecco. A questo punto capirete bene – o, almeno, abbastanza bene – il perché della venerazione che il sottoscritto nutre verso il volume realizzato da Drucker (e verso Jimmy, naturalmente). Sì, insomma, Connors e Joel Drucker non è che mi abbiano salvato la vita, ma hanno contribuito a farmela guardare con occhi diversi. A viaggiare nel tempo attraverso la potenza di uno scritto e di un immaginario – quello del tennis di una volta – che ha fatto sognare innumerevoli generazioni di appassionati. It’s only rock and roll, cantavano gli Stones. Lo stesso rock and roll del contrattacco tutto corsa e anticipi di “Jimbo” e della penna di Drucker.