4) La trasformazione mentale
Ma sicuramente l’aspetto più rilevante della Keys vincente del 2025 è legato alla trasformazione mentale. Fino al 2024 aveva raggiunto importanti risultati (ne ho citati alcuni prima: presenza fissa in Top 20, posizione 7 nel ranking, 9 titoli WTA vinti, una finale e sei semifinali Slam), eppure nel mondo del tennis tutti erano convinti che fosse una “underachiever”. Cioè una giocatrice che non aveva raggiunto quanto avrebbe potuto.
Dopo la finale, in conferenza stampa ha raccontato che sin da bambina (11-12 anni) le avevano predetto che avrebbe vinto degli Slam. In quel momento era un modo per incoraggiarla ed elogiare il suo naturale talento. Ma con il tempo quella previsione si era trasformata in un peso. Un peso sempre più grande perché lei, quel un traguardo annunciato, stagione dopo stagione, stava dimostrando di non essere in grado di ottenerlo.
La più grande occasione l’aveva vissuta allo US Open 2017: arrivata in finale da favorita, dopo avere “triturato” le avversarie nei quarti e in semifinale, non era praticamente scesa in campo, annichilita dalla pressione. E così aveva lasciato strada all’amica Sloane Stephens per 6-3, 6-0. Una finale che aveva ricordato da vicino quella di Wimbledon 2013, persa da Sabine Lisicki contro Marion Bartoli per 6-1 6-4 (ma dopo essere stata sotto 6-1 5-1). Entrambe erano considerate grandi favorite, entrambe avevano giocato benissimo sino alla partita decisiva, ed entrambe si erano sconfitte da sole prima ancora di scendere in campo.
Qualche anno fa avevo deciso di definire “super-attaccanti” le giocatrici che praticano il tennis offensivo più estremo. E avevo provato a spiegare perché, per loro, l’aspetto mentale è ancora più decisivo che per tutte le altre tipologie di giocatrici. Provo a sintetizzare la questione. Chi gioca con una certa prudenza, se è assalita dall’ansia ha più probabilità di cavarsela, perché esegue comunque colpi con una quota di margine. Quel genere di colpi è in grado di assorbire anche una certa dose di imprecisione, che fatalmente affiora nei momenti più importanti.
Ma chi pratica un tennis di attacco ad alto rischio, è “condannata” a essere perfetta, perché i colpi che esegue non ammettono tolleranze; un istante di irrigidimento del braccio, un po’ di tensione nell’avvicinamento alla palla con le gambe, il timore di chiudere con la consueta decisione lo swing: qualsiasi minima defaillance esecutiva si trasforma in errore, e in un punto perso. L’errore aumenta lo stress, e così si innescano circoli viziosi che si alimentano progressivamente, in un loop autodistruttivo che conduce sino alla sconfitta.
Certi crolli sono così assoluti, certe implosioni così totali, da indurre alcuni a parlare di incapacità nella lettura tattica del match: a mio avviso non era, e non è così. Voglio riportare quanto avevo scritto nell’agosto del 2016 (quasi nove anni fa) in un articolo dedicato proprio a Madison Keys: “Sono convinto che tutto parta dalla testa. Ma non nel senso di incapacità di lettura tattica dei match e di inadeguatezza nella scelta delle soluzioni giuste da adottare; no, dalla testa nel senso di peso psicologico, che impedisce di eseguire il colpo con la necessaria tranquillità. E non è detto che questa sia una interpretazione più ottimistica della questione: al contrario, temo sia molto complicato riuscire a superare le proprie debolezze psicologiche”.
“Ecco perché diventa ancora più difficile chiedere, ad esempio, a un talento come Madison Keys di mettersi ad allungare prudentemente il palleggio da fondo solo perché ha dato il via a una sequenza di errori gratuiti. Anche perché, per questo tipo di giocatrici, un cambio di tattica non significa una semplice e banale variazione di schemi: per chi è abituata a scendere in campo con l’idea che le sorti di un match dipenderanno soprattutto dal proprio modo di giocare, decidere di rinunciarci assume un valore ben più radicale. In sostanza: la questione psicologica per le super-attaccanti è particolarmente difficile da gestire”.
Sin da quando era apparsa sul circuito, ero rimasto colpito dal talento di Madison Keys. Per questo l’ho sempre seguita con particolare attenzione, nell’attesa che riuscisse a colmare l’evidente scarto tra le enormi potenzialità tecniche e i risultati effettivi. Ma confesso che a un certo punto della sua carriera avevo dato per irrisolvibile il problema psicologico che la affliggeva. Per esempio quando nella semifinale US Open 2023 Keys era arrivata a condurre per 6-0 5-3 contro Sabalenka, ormai mi aspettavo, con un orribile mix di cinismo e rassegnazione, il ribaltamento che l’aveva portata a perdere per 0-6, 7-6, 7-6.
Di fronte a queste ripetute difficoltà avevo cominciato ad associarla a quella categoria di persone che, in un rapporto a due (come è un match di tennis) finiscono sempre per soccombere. E l’aspetto deprimente è che lo si sa in anticipo. C’è una battuta in uno dei grandi classici del cinema americano che secondo me le si cuciva perfettamente. La dice Shirley MacLaine in The Apartment, di Billy Wilder. “He’s a taker”. “A what?” “Some people take, some people get took. And they know they’re getting took and there’s nothing they can do about it”. La battuta era pronunciata dalla stessa protagonista che in un altra parte del film spiegava perché le piaceva il suo portacipria con lo specchio rotto: “I like this that way: makes me look the way I feel” vale a dire che così poteva vedersi come si sentiva (cioè spezzata come lo specchio).
Ebbene, a un certo punto della sua vita, Madison Keys ha deciso di reagire a questa situazione. Lo ha raccontato con grande trasparenza in conferenza stampa a Melbourne. Ha detto: “Ho attraversato momenti duri, che mi hanno obbligata a guardarmi allo specchio e provare a lavorare sulla pressione interna che io stessa mi mettevo”. Un primo passo è stato accettare che nella carriera avrebbe anche potuto non vincere lo Slam che tutti le avevano pronosticato, e che quello non doveva essere il riferimento per stabilire se aveva fallito oppure no.
Ma il momento più significativo della conferenza stampa è stato quando ha spiegato che inizialmente aveva seguito degli psicologi dello sport per superare la difficoltà che aveva nel gestire lo stress, però la cosa non aveva davvero funzionato, perché troppo orientata al tennis e ai risultati sul campo. La situazione è cambiata quando l’approccio è diventato più profondo e radicale: “Ero così giù come persona, che mi sono detta: non mi interessa se mi aiuterà a migliorare come tennista, non mi interessa ciò che dovrò fare. Voglio solo sentirmi meglio come essere umano”:
Tornando all’aspetto più specifico e professionale: “Per troppo tempo avevo creduto fosse possibile arrivare a ignorare lo stress nei momenti decisivi dei match, come se in quei frangenti si potessero mettere da parte dubbi e paure per concentrarsi solo sul gioco. Invece no, lo stress arriverà comunque. Dovevo accettarlo, e imparare a conviverci in modo da evitare il panico: essere nervosa, ma continuare a giocare del buon tennis”.
Come lei stessa ha spiegato, questo processo di crescita psicologica non è stato istantaneo, non c’è stato un “click” magico che ha rovesciato la situazione all’istante. Già lo scorso anno aveva cominciato a sentirsi più forte mentalmente, ma era il corpo a non essere pronto, in grado di evitare gli infortuni.
Tutto si è finalmente allineato quest’anno in Australia e la dimostrazione più evidente sono state proprio le due partite conclusive del torneo. Battere una dopo l’altra Swiatek e Sabalenka: una impresa oggettivamente quasi impossibile. Eppure Madison ha scavalcato un ostacolo dopo l’altro, finendo in entrambe le occasioni per prevalere sul filo di lana, proprio in quel genere di situazioni tennistiche in cui è la testa a diventare determinante.
Semifinale contro Swiatek: 5-7 6-1 7-6(8). Nel terzo set Keys ha perso il servizio sul 5-5, ma è ugualmente riuscita a salvarsi in risposta fronteggiando anche un match point. L’apice inatteso lo abbiamo vissuto nei punti finali del tiebreak. Un tiebreak passato a inseguire, e concluso con uno sprint di tre punti vinti dopo avere perso uno scambio che avrebbe potuto essere psicologicamente devastante: quello concluso a rete da Swiatek grazie a un riflesso così prodigioso da strabiliare il pubblico. Ecco, dopo quello scambio, sotto 7-8 nel punteggio, non so in quanti hanno ancora creduto in Madison. Invece lei ha sfoderato un ace e un servizio vincente che le hanno permesso di salire 9-8 e di chiudere il match con uno scambio vinto grazie all’aggressività con cui ha saputo rispondere.
Finale contro Sabalenka: 6-3 2-6 7-5. Di nuovo terzo set equilibratissimo e di nuovo sprint conclusivo per decidere le sorti dello Slam. Con il punto finale che simboleggia tutto il meglio della sua carriera: un quindici conquistato non in attesa dell’errore dell’avversaria, ma prendendo l’iniziativa e concludendo lo scambio grazie a un imprendibile vincente di dritto.
Credo che nell’ambiente del tennis in molti siano stati contenti per la vittoria di Keys perché dopo tanti anni di attività la sua figura era riconosciuta come una delle più corrette e misurate del circuito. Lei aveva anche avviato alcune iniziative di lotta al bullismo, per combattere l’odio e la violenza verbale con la gentilezza (“Kindness Wins”). Le rimaneva da superare la nomea di dolce perdente, di giocatrice che nei momenti topici della carriera finiva sempre per sciogliersi. È stata capace di farlo tutto in una volta a Melbourne, nel modo più sorprendente e convincente possibile.