3) Il tennis di Simona Halep
Per quanto mi riguarda, sono convinto che per descrivere le caratteristiche fondamentali del gioco di Simona Halep si debbano cambiare le chiavi interpretative. Penso cioè che non si debba partire dalle categorie normalmente più utilizzate per definire una tennista, quelle di attacco o difesa, ma da quelle di spazio e tempo. Ho provato a descrivere nel dettaglio la mia idea in un articolo del 2018 e la sintetizzo qui.
A mio avviso Simona era una giocatrice superlativa nello scambio di ritmo da fondo campo. In questo era una autentica numero uno, una delle migliori di sempre. Nella gestione dello spazio era davvero fenomenale: non solo copriva il campo in maniera fantastica, ma soprattutto lo sapeva esplorare con le proprie traiettorie al rimbalzo senza punti deboli. Intendiamoci, la miglior Halep aveva forse il più forte rovescio al rimbalzo del circuito; ma non è che di dritto fosse tanto inferiore. Per questo si può dire fosse una giocatrice sostanzialmente simmetrica: non c’era una lato su cui puntare per metterla in difficoltà.
Dritto incrociato, dritto lungolinea, rovescio incrociato, rovescio lungolinea, dritti e rovesci inside-out: per lei non c’era alcun problema; nei colpi da fondo poteva eseguire qualsiasi parabola con sicurezza e alternanza totali. Quando era in forma, dava proprio la sensazione che le piacesse costruire geometrie articolate in modo da verificare la capacità dell’avversaria nella gestione delle traiettorie. E quando cominciava a manovrare attraverso il palleggio, poteva macinare chiunque.
Ma il suo tennis aveva anche un limite piuttosto inusuale: tanto eccelleva nelle variazioni della geometria (lo spazio), tanto rifuggiva quelle della ritmica (il tempo). Lei amava scambiare da fondo campo ad alto ritmo, mantenendo però una velocità costante. Le variazioni sul tempo non facevano per lei: se poteva, evitava qualsiasi tipo di rallentamento (e quindi gli slice o le moonball) ma anche le accelerazioni improvvise o impreviste; e quindi anche le discese a rete o le palle corte. Quando abbandonava la linea di fondo, si sentiva un pesce fuor d’acqua.
Per questo difficilmente cercava i colpi di volo, anche quando il “manuale del bravo tennista” li avrebbe consigliati: anche su parabole attaccabili, nel dubbio preferiva sempre il passo indietro a quello in avanti. E se trovava una giocatrice ispirata capace di offrire un tennis aritmico, poteva andare in difficoltà.
Ricordo un match contro la allora giovanissima Marketa Vondrousova a Roma 2019, nel quale aveva finito per perdere 2-6 7-5 6-3. Ebbene, Marketa l’aveva martoriata a colpi di drop shot: ben 21 nel corso della partita. Oppure la sorpresa di Taylor Townsend allo US Open 2019: vittoria da assoluta outsider per Townsend, arrivata per 2-6 6-3 7-6(4) dopo 93 colpi a rete. Attacchi continui che toglievano il tempo ad Halep.
Un’altra giocatrice maestra del tennis aritmico era Hsieh Su-Wei, che infatti l’aveva sconfitta a Wimbledon 2018 per 3-6 6-4 7-5. E in quell’anno Simona era testa di serie numero 1. Insomma, Halep era una fuoriclasse nelle geometrie da fondo, ma soffriva chi la obbligava ad abbandonare il suo metronomo interno, che implacabilmente la guidava sempre alla stessa cadenza.
E, strano a dirsi, proprio questa costante temporale la rendeva di mutevole catalogazione. Dato che il suo tennis aveva sempre lo stesso ritmo, la variabile era data da un fattore esterno: l’avversaria. Quindi le sue partite potevano essere prevalentemente di attacco o di difesa a seconda della giocatrice che incontrava. Se l’avversaria non riusciva a reggere quel tempo, Simona finiva per impersonare la parte della attaccante. Se invece l’avversaria puntava a scambiare a una velocità superiore rispetto al tipico standard di Halep, allora Simona risultava difensivista.
Questo genere di tennis le consentiva di vincere tanti match, ma con alcune inevitabili controindicazioni. Cercare infatti di aggiudicarsi i punti senza quasi cambiare velocità e senza abbandonare la linea di fondo, poteva significare dover eseguire diversi colpi in più anche in scambi nei quali era chiaramente in vantaggio. Teniamo anche conto che il servizio di Halep era discreto ma non dominante, e quindi non è che le consentisse molti quindici facili. E così quando trovava un’avversaria particolarmente “tignosa” e in una giornata nella quale sbagliava poco, i match potevano trasformarsi in maratone faticosissime.
L’apice di questa situazione si è verificato all’Australian Open 2018. Slam con temperature caldissime, affrontato da testa di serie numero 1. Halep aveva infilato una serie di match tremendi sul piano fisico: 4-6 6-4 15-13 contro Lauren Davis al terzo turno, 6-3 4-6 9-7 contro Angelique Kerber in semifinale, e poi la sconfitta in finale 7-6(2) 3-6 6-4 contro Caroline Wozniacki. Dopo la finale, per precauzione Simona aveva passato la notte in ospedale, tanto era stato lo sforzo profuso nel corso di quelle partite.
Ma, in fondo, quelle stesse partite sono state anche la dimostrazione del suo modo di interpretare la professione di tennista: senza mai risparmiarsi e allenandosi duramente per essere pronta a qualsiasi confronto. Una dedizione al lavoro che non ammetteva indulgenze o pressapochismi. E forse proprio perché puntava alla perfezione, quando era in campo era restia ad abbandonare i suoi schemi consolidati, nei quali si sentiva più sicura. Anche per questo andare verso la rete non faceva per lei: sia perché di volo non era forte come al rimbalzo, sia perché avrebbe significato andare “all’avventura”, dipendendo troppo dalla replica dell’avversaria. E lei preferiva avere la situazione il più possibile sotto il proprio controllo.
Si può condividere o meno questa impostazione, e non avremo mai la controprova di cosa sarebbe accaduto se avesse provato a mettere mano a certi limiti del suo tennis in modo più profondo. D’altra parte è anche difficile condannare il suo atteggiamento conservativo: a conti fatti, sul piano del rendimento, fra il 2014 e il 2021 è stata la giocatrice più costante del circuito ad alti livelli. Non solo perché è rimasta stabilmente in Top 10 (più spesso in Top 5) per 7 stagioni di fila, con 24 titoli WTA, ma anche perché ha dimostrato di poter ottenere ottimi risultati su tutte le superfici, con finali Slam raggiunte sulla terra (Roland Garros 2014, 2017, 2018), sul cemento (Australian Open 2018) e sull’erba (Wimbledon 2019). Ecco perché, in sede di bilancio, è impossibile descrivere gli anni ‘10 del tennis femminile senza tenere conto delle sue imprese.