“Ero direttore del torneo di Firenze e Roberto Lombardi era stato sorteggiato contro un ragazzino cecoslovacco; la partita era programmata credo per le undici di mattina ma per quell’ora dell’avversario di Roberto non c’era traccia. “Ho vinto io” mi dice lui, ma io non voglio che finisca così e gli parlo: questo ragazzo arriva da Ostrava, sarà dovuto andare a Praga in chissà quali condizioni, poi da lì fino a Milano e poi Firenze. Ancora un po’ di pazienza, concedigli del ritardo. Poi sarà stanchissimo, lo batti facile… Il ragazzino arriva, scende in campo e lascia a Lombardi due o tre game… Roberto non mi ha rivolto la parola per diverso tempo…”.
Gli aneddoti di Ubaldo Scanagatta sono innumerevoli e quelli su Ivan Lendl, il ragazzo di Ostrava ritardatario ma implacabile una volta sceso in campo, meritano probabilmente un capitolo a parte, anche perché la benevolenza del direttore del torneo di Firenze durante la seconda metà degli anni Settanta ha impresso al loro rapporto una piega positiva, divertente come lo può essere lo humour glaciale del grande campione moravo, che diversi anni dopo Firenze, quando la sua carriera era quasi del tutto compiuta, alla domanda sempre del direttore “cosa farai dopo il tennis?” rispose: “di certo non il giornalista pelato!”.
Ivan Lendl sale per la prima volta sul trono della classifica mondiale il 28 febbraio del 1983. La volontà di ferro e la straordinaria continuità di risultati lo issano sul gradino più alto del ranking alla soglia dei 23 anni, nonostante per lui fino a quel momento a livello Slam ci siano più delusioni che altro: nel 1981 non è certo favorito nella finale di Parigi che vede Borg alzare per la sesta e ultima volta la Coppa dei Moschettieri, ma lo è nel 1982, quando cede in una finale magnifica a una versione spiritata e iper-agonistica dell’allora trentenne già considerato vecchietto Jimmy Connors.
Jimbo lo strega ancora un anno dopo, sempre in quattro set ma per 6-0 nell’epilogo; Ivan è fortissimo ma gli manca qualcosa perché contro gli altri grandi sembra soffrire di un complesso di inferiorità. A Wimbledon due mesi prima si inchina in seimfinale all’altro mancino americano, John McEnroe, in tre set; Supermac è inarrivabile sul verde ma la delusione per Lendl è fortissima. La svolta arriva nella celeberrima finale di Parigi 1984, un vero e proprio passaggio cruciale tra due epoche di gioco del tennis, con il newyorchese che si scopre fragile di fronte alle cannonate del moravo, campione moderno che ha trovato nella sua anima l’interruttore della fiducia in sé stesso e lo ha spostato per sempre sulla modalità “acceso”.
Arriveranno ben diciannove finali major e Ivan ne vincerà “solo” otto, sufficienti a definirlo il tennista più vincente degli anni Ottanta in un decennio popolato di grandi campioni e soprattutto caratterizzato da profonde differenze di rendimento per gli atleti a seconda delle superfici di gioco. Lendl è ritardatario quindi anche nel vincere, ma poi non si ferma più e stacca sia Connors che McEnroe; subisce l’impatto dei grandi attaccanti Boris Becker e Stefan Edberg ma chiude la carriera in vantaggio nei confronti diretti con tutti e anche con Wilander; unica eccezione è proprio Edberg, che batte però nell’unica finale disputata tra i due, a Melbourne nel 1990. Stefan in realtà si ritira per problemi fisici e darà la colpa alle fatiche di doppio, disciplina che da allora smetterà di frequentare, ultimo grande campione legato al doppio impegno.
Nel decennio descritto, caratterizzato da attaccanti forti e spettacolari come, oltre a quelli citati, Pat Cash, Henri Leconte, Yannick Noah e altri, Ivan Lendl è una sorta di alieno. Nel gioco appunto, pragmatico, potente ma meno generoso in termini di variazioni, e anche nel carattere: è una maschera di determinazione, serio fino a sembrare cupo. A Wimbledon si concede un siparietto con Connors: nel match del 1984 crede di aver sentito qualcuno chiamare out una palla e domanda chi sia stato. Si porta a rete, appoggia le mani al net e guarda dritto Jimmy: “l’hai chiamata tu?”. Il pubblico ride incredulo, Connors gli si avvicina e lo rassicura: “non sono stato io”. L’americano ride, lui così poco avvezzo a scherzare in occasioni importanti, e gli appoggia con affetto il piatto-corde sul capo.
Per il resto nei suoi occhi c’è spazio solo per l’ambizione di annullare lo svantaggio che i suoi natali gli hanno inferto nella corsa al primato, lo stesso che ha dovuto accettare la sua connazionale Martina Navratilova, solare e sanguigna ma alle prese anche lei con le tare caratteriali che le hanno probabilmente sottratto, nonostante diciotto titoli Slam, altre soddisfazioni.
Lendl vince più di tutti, è inesorabile nel soffocare il ritorno di McEnroe e, finché può, le imprese di Boris, Stefan, André Agassi e Pete Sampras, che per capire cosa voglia dire sacrificarsi per il proprio sogno, accetta di trascorrere qualche giorno a casa di Ivan per allenarsi con lui. Lendl è stimato ma non è amato: in tanti gli preferiscono i mattacchioni, gli irascibili, i capelloni. Lui non mostra altro che il suo tennis, asciutto come lui, ineluttabile. Più di un avversario lo attacca: “ha poco talento; lui non gioca, lui lavora a tennis. Pensa solo ai soldi”. Ivan non commenta; con consueta sincerità dice “ascolto sempre chi mi offre dei soldi” quando viene varata la ricchissima Grand Slam Cup, senza lamentarsi di chi non lo dice ma poi, pur legittimamente, si accoda alla cassa.
Ecco, la retorica, la ricerca dell’applauso facile: Lendl non l’ha mai praticata. Nel 1990 affronta in semifinale a Melbourne Noah, suo mai troppo amato coetaneo (famosa una loro sfida quattro anni prima a Roma in semifinale, vinta da Ivan 7-6 al terzo e con il pubblico schierato con il francese come fosse di Testaccio o di Trastevere). Noah sta giocando bene quando in uno dei primi game crede di subire un torto: subito esce dai gangheri, inveisce verso il seggiolone e perde contatto con il match, che finisce nelle mani dell’avversario. Il campione franco-camerunense sta perdendo netto il terzo set, dopo aver ceduto i primi due, quando Lendl ritiene di aver subito a sua volta un torto dai giudici di linea.
Ivan si ferma e guarda per un attimo il linesman considerato colpevole e il piacione con le treccine non perde la ghiotta occasione: “you don’t need any point” gli dice, non hai bisogno di alcun punto. Gli applausi convinti del pubblico di Melbourne sentenziano che il cuore dell’arena batte per lo showman transalpino, che ha perfettamente ragione nel dire al ceco più o meno: “e lascia perdere, hai già vinto”.
Ma Lendl non lascia perdere se il punto è suo: lo deve a sé stesso, alla strada lunga ed estenuante che ha percorso quando doveva raggiungere Firenze e tutte le altre manifestazioni oltrecortina, con il borsone sulla schiena. Lo deve a mamma Olga e a papà Jiri, lo deve in ultima analisi anche al pubblico, che ha sempre rispettato non facendosi mai trovare impreparato, fosse iscritto a un torneo major o a una esibizione, che non mollava mai a differenza di qualche altro collega più simpatico o sorridente ma insofferente ai match senza nulla in palio che non fosse… il premio in dollari.
Oggi gli applausi vanno a Ivan Lendl, un grande campione alcune qualità del quale sono state da non pochi apprezzate solo con il passare del tempo. Quarantadue anni fa il ragazzino moravo in ritardo a Firenze si sedeva sulla sedia più nobile del circuito, segnandolo indelebilmente.