Ti sei accorta anche tu, che in questo mondo di eroi
Cesare Cremonini- Nessuno vuole essere Robin
Nessuno vuole essere Robin
“E andiamo!”: Adriano Panatta conosce una sola via per commentare il tennis in televisione, ed è la via del disincanto. La battuta, l’accento romano, la leggerezza che corre il rischio della superficialità: una partita di tennis è solo una partita di tennis, come se bisognasse perfino specificarlo, ogni volta. Adriano Panatta conosce una sola via per commentare il tennis in televisione, un po’ abbiocco estivo sul divano con la tappa del Tour de France, un po’ Valerio Mastandrea, un po’ Zerocalcare, e infatti gli si vuole bene.
Adriano Panatta conosce una sola via per commentare il tennis in televisione, ma quel giorno, dopo l’ennesima scossa di rovescio di Stan Wawrinka, perse la testa: “E andiamo!”, con Djokovic che era rimasto – pietrificato – a cinque metri dalla palla. E il campione serbo, dopo aver vinto il primo set nella finale del Roland Garros del 2015, fu letteralmente cancellato dal campo.
La nostalgia di Wawrinka – che oggi compie 40 anni – è la nostalgia di un momento, come succede spesso in questi casi: il mio momento, ad esempio, è la prima domenica dell’Australian Open (ma quello del 2013, perchè ci affezioniamo di più alle sconfitte, fateci caso), e il fuso orario favorevole, che mi consentì di fare colazione con una delle migliori partite degli ultimi 20 anni, e torniamo ancora a Djokovic. La nostalgia di Wawrinka è la nostalgia di un Wawrinka insopportabile, che perdeva tantissimo e che urlava in faccia agli avversari sulle stecche: la nostalgia di Wawrinka è la nostalgia della polemica con Flavio Cipolla allo US Open. Provate a immaginare: sei Wawrinka, e litighi con Cipolla.
E’ la nostalgia di un momento – dicevamo – perchè se avete amato Wawrinka avete vissuto Federer: 23 a 3, gli scontri diretti, a favore del Re, del protagonista, della storia giusta. Una volta, alle Finals di Londra, Roger entrò in campo con la schiena bloccata: Stan, di conseguenza, accorciò gli scambi, con una serie di serve and volley abbastanza inediti, perchè non riusciva a trovare il coraggio di batterlo, e nemmeno – a dire il vero – di guardarlo in faccia, e, infatti, siccome non si può litigare da soli, polemizzò con la moglie dell’avversario – Mirka Vavrinec – seduta in prima fila. E poi perse.
Tre titoli dello slam (Australian Open 2014, Roland Garros 2015, US Open 2016), battendo tutti i più forti (a Melbourne, a dire il vero, approfittò di un infortunio di Rafa), altri tredici tornei vinti (tra cui un solo 1000, a Montecarlo), una medaglia d’oro alle Olimpiadi, in doppio, insieme al marito di Mirka. La storia di Stan, dopo un lungo preambolo caratterizzato dal fiammifero di qualche giornata perfetta nel contesto più ampio della stanza buia della continuità, decollò quando non ci credeva più nessuno, poco prima dei 30 anni, insieme al mentore giusto, Magnus Norman (che nel corso degli anni precedenti aveva guidato un altro Robin, di nome e di fatto, e ci riferiamo a Soderling, verso risultati difficili da accettare, per il circuito del tennis mondiale, ormai anestetizzato dal dominio di pochissime facce): il dritto diventò il colpo decisivo, la percentuale di prime palle in campo indossò i panni del complice e poi, soprattutto, il suo fisico scoprì una solidità inedita. Wawrinka, che per anni aveva masticato l’amarezza della sconfitta e dell’eterno numero 2 (di quelli più forti, della sua nazione, di tutto), respirò l’aria del guastafeste, adeguandosi al sogno del salto di qualità dell’eroe: in mezzo alla solita filastrocca delle semifinali, Federer-Nadal-Djokovic-Murray, era spuntata una parola storta, che non faceva rima con nessuno.
Non faceva rima con la prima parte della sua carriera, spiazzando anche i tifosi più fedeli. Non faceva rima con la perfezione noiosa di quei quattro, perchè Wawrinka aveva un carattere spigoloso. Non faceva rima con lo sviluppo tattico delle partite sempre uguali a sè stesse, perchè la logica follia di quel rovescio sparigliava le carte, e ti trascinava. “E andiamo!”.
Lo obbligarono a indossare il mantello dell’eroe, anche se Stan, forse, era un’altra cosa. Gli costruirono intorno una narrazione un po’ più facile da digerire, un vestito un po’ più presentabile, e lui si adeguò, rinunciando alla tensione nervosa dei primi anni. Wawrinka, no, non voleva essere Robin: a Wawrinka piaceva – tantissimo – vincere la partite di tennis, e forse, per questo motivo, non lo perdoneremo mai. Perchè la vittoria è ripetitiva, banale, piatta e anche un po’ vuota: e non merita certe perle. Perchè Wawrinka sarebbe stato un Robin perfetto.
Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better
Il tatuaggio più famoso del circuito, quello di Wawrinka, con una frase di Samuel Beckett
Ogni tanto gioca ancora a tennis: lo scorso ottobre ha raggiunto la semifinale a Stoccolma grazie a una serie di prestazioni sontuose, un paio di mesi fa ha preso a cazzotti Medvedev per un’ora e mezza, e poi le gambe hanno ceduto. In questi giorni si sta divertendo a Napoli, in un torneo Challenger: Wawrinka ha deciso di rimanere fino alla fine della serata, fino a quando accendono le luci. Se non metti l’ultima, noi non ce ne andiamo: è rimasto da solo, con i bicchieri abbandonati per terra, sul pavimento appiccicoso. Loro sì, lo sanno, come ci si sente, ad essere diamanti, invisibili alla gente.