Era il 19 novembre quando Rafa Nadal ha chiuso la sua carriera tennistica con la sconfitta in Coppa Davis contro Botic van de Zandschulp. Il 22 volte campione Slam è ancora in quella fase dov’è difficile accettare di aver lasciato lo sport, come ha confessato in una conferenza stampa sul tema “Rendimento sportivo e salute” presso la Scuola Universitaria UAX, nel campus di Villanueva de la Cañada (Madrid): “Ho perso competitività e questo mi dà fastidio. Vado a giocare a golf e non riesco a concentrarmi come prima, non capisco chi gioca senza un obiettivo, al di là del tenersi in forma”, scherza (ma non troppo) Nadal.
“Sono più un lottatore che un vincente – spiega Rafa –, mi piace competere, lottare, più che vincere facilmente, la sfida. Dopo tanti anni, quando ti ritiri, c’è una fase in cui testa e corpo si fermano. Ma da qualche settimana mi sento più centrato. La verità è che la ritirata non mi ha fatto male, l’ho gestita bene. La mente si prende una pausa momentanea”.
Sui numeri e i titoli, Nadal minimizza così: “Non ho mai avuto un ego importante, non ho mai pensato troppo ai numeri. Sono soddisfatto perché so di aver dato tutto. Tornare a casa da un torneo con la sensazione di non aver fatto il massimo non era da me. Sono sempre tornato tranquillo, sapendo che più di così non potevo dare. Ciò che ti riempie è sapere di aver superato te stesso. Vincere o perdere sono cose che non controlli. Quello che si vede in campo è il riflesso di ciò che hai fatto per tutta la vita. Come in un esame: viene fuori quello che hai preparato”, prosegue, mentre l’attenzione dei presenti resta altissima”.
Dietro ad un grande tennista c’è sempre una base importante: “Mio zio Toni mi ha allenato da quando avevo tre anni, poi si sono aggiunte altre persone decisive. Ho ricevuto un’educazione corretta, una preparazione adeguata a quello che poteva succedere in futuro. La mia famiglia mi ha sempre trattato come un figlio normale, senza pressione. Quando arrivano i momenti di pressione, quelli importanti, quella preparazione ti aiuta a gestire tutto ciò che succede. È autocontrollo, gestione delle emozioni”.
Eppure non è sempre stato rosa e fiori la vita di Nadal, soprattutto quando nel 2005 fu diagnosticata la Sindrome di Müller-Weiss al piede sinistro, una malattia degenerativa che gli fratturò lo scafoide: “Non c’era via d’uscita. Diversi medici mi dissero che non avrei mai più giocato. Avevo 19 anni… Alla fine, si trovò la soluzione spostando il punto d’appoggio con una soletta esagerata di 7 millimetri e una scarpa speciale per contenerla. Funzionò. Il piede si sistemò, ma si rovinò tutto il resto. Il corpo si è squilibrato”.
Tornando al campo, la miglior finale della sua vita rimane quella di Wimbledon 2008 contro Federer: “È stata una delle partite più difficili della mia carriera per ciò che rappresentava. Era la mia terza finale a Wimbledon dopo aver perso nel 2006 e 2007. Avevo il dente avvelenato. Vincere mi ha dato fiducia, mi sono dimostrato che potevo vincere anche fuori dalla terra battuta”.
Altro match storico è stato in Australia quando era sotto 2-0 e a Medvedev davano il 96% di probabilità di vittoria: “Pensavo che avrei perso. Ma era troppo importante non mollare. Ho sempre avuto un buon autocontrollo. Non sono mai stato frustrato in campo. Accettare ciò che succede ti permette di trovare soluzioni. Per quel 4% valeva la pena lottare. È sempre stato il mio punto di vista”.
Anche se non più con una racchetta in mano, Nadal continua a guardare il tennis da fuori: “Il tennis praticamente non è cambiato nelle regole, ma la gente è sempre più alta e si muove meglio. Il servizio ha un impatto decisivo. Se non cambia qualcosa nel regolamento per limitare la potenza, arriverà qualcuno di oltre due metri e con grande mobilità, e non potrai più competere, non potrai fare un break. Quel giorno non è ancora arrivato. Djokovic è stato in finale a Miami due giorni fa, io un anno e mezzo fa ero ancora competitivo… questo mi fa pensare che il cambiamento radicale ancora non c’è stato“.