La grande settimana del Rolex Monte-Carlo Masters, con Musetti che si qualifica per la sua prima finale in un Master 1000, ha messo in secondo piano una ricorrenza importante per uno dei tennisti italiani più in vista degli ultimi quarant’anni: Paolo Canè ha compiuto sessant’anni. Nato a Bologna nel 1965, Canè si è imposto come il giovane più promettente nell’immediato dopo-Panatta, e nel solco della tradizione di allora, ha raggiunto la finale degli Assoluti nel 1983, cedendo a Francesco Cancellotti, e nel 1986, quando ha vinto lo scudetto affrontando Corrado Aprili e regolandolo per 7-6 6-4 6-2.
Il torneo versava in una crisi tecnica irreversibile, che si specchiava in una crisi di talenti senza precedenti: i tempi delle sfide tra Panatta e Pietrangeli erano lontanissimi e il nostro tennis si preparava a un periodo di vuoto di campioni per il termine del quale abbiamo dovuto aspettare fino alla generazione di Matteo Berrettini e di Jannik Sinner.
Il cammino di Cané nel circuito professionistico è stato piuttosto peculiare: depositario di notevole estro, Paolo, per sua stessa ammissione, non era troppo dotato né dal punto di vista fisico né da quello nervoso; soprattutto per quest’ultima caratteristica, le sue imprese più importanti sono indissolubilmente legate alla Coppa Davis, alle sfide in tre giorni durante i quali sapeva cogliere il massimo dalla sua capacità di concentrazione e dalle sue energie mentali.
Cané è sempre sembrato tutt’altro che un personaggio, ma questa sua capacità di accendersi e bruciare tutta l’adrenalina in corpo nel giro di un weekend, durante il quale poteva dare filo da torcere anche ai migliori del mondo, strideva con la sostanziale mediocrità di rendimento nei tornei major, dove non disputerà mai un terzo turno, e coinvolgeva in maniera viscerale l’appassionato nostrano, rapito dal suo tennis ispirato e dal suo temperamento difficilmente controllabile.
Nei fine settimana di Davis, e in generale nel suo rapporto con la manifestazione a squadre, Cané ha così saputo emozionare, intenerire e indignare i tifosi del tennis alla ricerca delle bellissime e ormai passate sensazioni che le battaglie di Adriano e compagni sapevano assicurare. Nel 1986 la Svezia di Wilander, Edberg e Nystrom ci sommerge con un duro 5-0 ma Paolo ben figura strappando un set a Mats e pochi giorni dopo supera proprio Nystrom, numero otto del ranking, a Bastad.
Ci illudiamo un po’, ci pensa Emilio Sanchez a superarlo nei quarti del torneo svedese. Ma a Prato l’anno dopo Paolo guida gli azzurri di nuovo contro i gialloblù del nord: si perde ma 2-3 e il bolognese si esalta e batte sia Pernfors che Wilander, anche se quest’ultimo solo a risultato già acquisito. Canè è ormai il nostro ammazzasvedesi, il tennista che può mettere in croce la regolarità un po’ noiosa della scuola scandinava. Ma Canè è imprevedibile e pochi mesi dopo in Corea del Sud è capace di perdere da tale Song; forse non motivato dal nome dell’avversario, cede ai nervi e si riabilita solo nella terza giornata ai danni di tale Kim.
Nel 1989 in Svezia capitan Panatta lo tiene in panchina, accusandolo di non essersi presentato in condizioni atletiche accettabili per un nuovo confronto con la Svezia: Canè reagisce e indigna con il suo famoso “mai più in Davis finché c’è Panatta”, non accettando nel merito la scelta dell’ex campione romano. Adriano dovrà improvvisarsi psicologo per ricucire lo strappo con il nostro numero uno, ma il risultato finale sarà il capolavoro del 1990, quando arriva il suo match più famoso, quello che dà il titolo a questo articolo: l’Italia batte la Svezia a Cagliari e Canè è il protagonista assoluto, con la vittoria con Svensson nella prima giornata, rimontando da 0-2, quella in doppio con Nargiso e l’indimenticabile sfida in due giorni e cinque set con Mats Wilander, certo non il miglior Mats, ma sempre un grande campione.
Uno dei match più emozionanti mai giocati da un giocatore italiano e il modo con cui Paolo si lascia cadere dopo il famoso passante di rovescio nel punto più bello dell’incontro ha qualche somiglianza con la sdraiata di Sinner dopo il matchball con Medvedev a Melbourne 2024.
Paolino battaglia pochi mesi dopo con sfortuna con Muster a Vienna, sempre al quinto set, e infonde un po’ di tenerezza quando perde entrambi i suoi singolari nella tre giorni di Dortmund nel febbraio del 1991 in quella che è una delle tecnicamente più esaltanti sfide della nazionale, quando Camporese e Nargiso seminarono per due giorni e mezzo sconforto e spavento nel popolo di Becker, da pochissimo numero uno del mondo, e Stich.
Emozioni e coinvolgimento: nel lungo, talmente lungo da sembrarci ad un certo punto interminabile, periodo che separa Adriano Panatta da Jannik Sinner, Paolo Canè ci è sempre apparso non come il più forte, ma come il più umano e fragile, intendendo quello che più si è riconosciuto nei propri limiti e ha sofferto della propria incompletezza, ribellandosi a questa con il suo talento intermittente e sapendo entusiasmare le folle orfane dei moschettieri anni Settanta come nessun altro fino i giorni nostri. Vederlo ed ascoltarlo oggi cronista televisivo elegante e composto nell’eloquio, ci restituisce un senso di tranquillità, di serenità e pace interiore raggiunta. E allora auguri, sia pure in ritardo, Paolino ex la Peste.